Cosa c’e’ di sensato nell’America che alzerà (tra poco) i tassi mentre l’Europa li spinge sotto zero? La risposta al quesito sembrerebbe ovvia: perché l’America è in piena ripresa economica mentre l’Europa non lo è ancora.
Ma in realtà c’è molto di più, e vale la pena di parlarne. Quella di avere la Banca Centrale di un grande sistema economico industrializzato (nel nostro caso la Banca Centrale Europea) che spinge il proprio tasso ufficiale di sconto a -0,3%, cioè tre decimi di punto in negativo, è una novità assoluta a livello globale. Vero che prima della Bce altre banche centrali hanno adottato questo provvedimento, per esempio quella Svizzera e quella Danese, ma la Svizzera è una piccola nazione che, allo scopo di mantenere la propria autonomia (soprattutto finanziaria) ha sempre tenuto le distanze da certi accordi con le altre nazioni europee, e la Danimarca, anche se è nell’Unione Economica europea, ha però preferito tenersi fuori dall’euro, e gestirsi così la propria finanza in completa autonomia. Quindi l’effetto del tasso centrale sotto lo zero di questi paesi ha incidenza molto limitata o nulla a livello globale. Non è così se lo fa invece la prima potenza economica globale in termini di Pil generato, cioè l’Europa.
Ma che effetti produce sul sistema bancario europeo questa novità? Significa che quando le banche, come è consuetudine, parcheggiano gli eccessi temporanei di liquidità presso la Banca Centrale, invece di averne un piccolo tornaconto troveranno un incremento di spesa. Ovvio che questo ai banchieri europei non faccia piacere, e spiegherebbe anche (molto meglio di quello che ci hanno propinato nell’occasione i notiziari dei TG ufficiali) il crollo in borsa di qualche giorno fa, nonostante Draghi abbia mitigato questa notizia con l’altra, certamente più gradita ai banchieri, che all’occorrenza non avrà esitazione ad incentivare e/o allungare la durata del quantitative easing europeo.
Come è noto la Banca Centrale americana è dall’inizio della “Grande Recessione” che sostiene l’economia interna praticando un tasso di sconto praticamente a zero, ma non si è mai spinta fino al punto di scendere sotto-zero. Questo però è già stato sufficiente a sollevare molte lamentele da parte dei banchieri, soprattutto quelli dei grandi istituti, che trovano sostegno, nonostante la completa autonomia della Bce, anche dalle pressioni esercitate da molti politici.
Veniamo dunque al quesito originario: come mai la Banca Centrale Europea si spinge in un territorio così inesplorato ed insidioso come quello di avviare una politica di tassi negativi, proprio nel momento in cui occorrerebbe invece dare una ulteriore spinta all’economia? (oltre alla spinta gia’ fornita dal QE). E come mai questa assoluta divergenza rispetto alla politica che invece si accinge a fare la Banca Centrale americana? (Che questa settimana alzerà invece il tasso di riferimento).
Questa domanda se la pongono in molti economisti e nessuno ha per ora una risposta certa, ovvero suffragata da esperienze precedenti, trovandosi ora la Bce a navigare in mari ancora inesplorati. Ci sono però importanti analisi, come quella di Neil Irwin sul NYT: “Why negative interest rates are becoming the new normal” (Perché i tassi negativi stanno diventando la nuova normalità), e quella che propone Mohamed A. El-Erian (attualmente capo economista di Allianz, consigliere di Obama, ecc. ecc.) nell’articolo “The great policy divergence” (La grande divergenza politica economica).
Irwin si chiede correttamente se la politica dei tassi negativi potrebbe scatenare … prima le banche e poi correntisti e risparmiatori … a ritirare in massa i propri fondi per andarli a mettere altrove. Una ipotesi catastrofica. Alla quale nemmeno Draghi risponde, dicendo semplicemente che adesso va bene così. Ma alla fine sembra convincersi anche lui sulla mancanza di pericoli immediati e che anzi, quella dei tassi a zero o sottozero potrebbe diventare la nuova prassi delle banche.
El-Erian si spinge invece un po’ più in là e intravede la possibilità che questa divergenza nelle politiche monetarie potrebbe produrre importanti scompensi nella finanza globale, scompensi che potrebbero mettere in grave crisi soprattutto le economie più deboli dei paesi emergenti, che tornerebbero così in territorio negativo, con recessioni che, se numerose, avrebbero influenza anche sull’economia americana.
Il dollaro infatti è ancora la moneta più usata a livello globale e ha già subito una fortissima rivalutazione sia rispetto all’euro che a tutte le altre monete forti dell’economia globale.
Il mercato tornerebbe in fase di forte volatilità (o correzione) e ci sarebbe la possibilità di disordinate reazioni da parte di molti investitori (cioè quello che è successo nel 2008).
Lui però ha pronto alcuni suggerimenti che, se attuati per tempo, potrebbero risolvere la situazione. Quali? (manco a dirlo, da uno come lui): Fare riforme strutturali per aumentare la competitività, ridurre l’indebitamento, ammorbidire tutti i meccanismi decisionali multilaterali e regionali al fine di accentrare il potere decisionale dal quale far scaturire i rimedi empirici necessari. (Sembra di sentire Renzi!)
La risposta di El-Erian mi fa venire in mente tutta la serie di errori già commessi sia dall’Europa che dagli Usa prima e dopo la “Grande Recessione”.
Prima la pressoché totale liberalizzazione dei mercati, saltati per aria dopo l’innesco dei “subprime mortgages”, poi la politica dell’austerity in piena recessione, poi (in Europa) il rialzo dei tassi (nel 2011) per paura dell’inflazione, poi l’attesa troppo lunga al riallineamento dell’euro con il dollaro, poi la riduzione dei tassi fino a portarli sotto zero piuttosto che allentare per tempo i vincoli della cosiddetta “stabilità”, poi l’avvio (finalmente) del Qe europeo quando si era già in piena depressione, ecc.
Sempre in ritardo, o inopinatamente in anticipo; sempre in difesa delle banche e dei mercati, mai in quella della gente che lavora e che produce beni reali.
Ma siamo proprio sicuri che siano errori?