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Francia, perché Le Pen ha vinto (il terrorismo non c’entra)

In questo weekend ero a Parigi, ho parlato molto di elezioni con un po’ di persone. E nessuno attribuiva il prevedibile successo del Front National alla reazione agli attacchi di Parigi del 13 novembre, a differenza di quello che si tende a fare in Italia.

Primo: questo non è il miglior risultato in valori assoluti del partito guidato da Marine Le Pen. Come si vede in questo grafico, alle presidenziali del 2012 il numero di francesi che ha votato per l’estrema destra era stato ancora superiore rispetto agli attuali sei milioni.

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Ma è vero che rispetto alle regionali 2010 sono quasi triplicati. Vedremo se, nel secondo turno di domenica prossima, Marine Le Pen conquisterà almeno una regione, ma la prova di forza già così è impressionante. Già dover attivare “il fronte Repubblicano”, cioè l’unione dei voti di socialisti e conservatori per broccare l’estrema destra, è un successo politico inequivocabile per Marine Le Pen.

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Tutta colpa dell’Isis e del terrorismo? Nessuno, in Francia, può sostenerlo. Io vedo quattro ragioni che spiegano questo successo dell’estrema destra.

Primo: da quando Le Pen padre arrivò al ballottaggio nel 2002 (spingendo i socialisti a votare poi per il centrodestra di Jacques Chirac), la paura è il primo punto dell’agenda politica in Francia. Paura verso gli immigrati, l’Europa, la globalizzazione. Il Front National non è, in senso stretto, un partito anti-euro. E neppure un partito anti-austerità nel modo in cui lo è Syriza in Grecia.

Il Front National esprime un senso di inquietudine per un mondo che attraversa cambiamenti di cui soltanto a Parigi si intravedono, pur con diffidenza, anche gli aspetti positivi. Nel resto della Francia molto meno. In un Paese dove i sotfware si chiamano ancora logiciel e i computer ordinateur insegnare corsi in inglese all’università è considerato un tradimento della Patria, è difficile vedere la caduta delle frontiere, l’arrivo di Internet come un’opportunità. Figurarsi la deindustrializzazione e la sharing economy. Solo nel 2012 la Francia ha rinunciato al suo Minitel, una specie di antesignano di Internet locale che non ha mai funzionato granché ma che offriva l’illusione di poter stare nella globalizzazione senza doverne subire le regole. L’Europa è, ovviamente, un bersaglio perfetto per incanalare questi timori verso la contemporaneità.


Secondo: il modello repubblicano mostra le sue falle, la struttura classista dietro la retorica egualitaria, il comunitarismo non governato velato dai proclami di laicità. Si discute molto dell’adeguatezza di un sistema educativo che, in superficie accogliente e semi-gratuito, nasconde delle distorsioni insuperabili, riesce a ottenere il risultato (sconosciuto all’Italia) di avere un’élite molto preparata che ha studiato, ma che è socialmente troppo omogenea per governare il Paese. L’istruzione resta concepita per una Francia che non esiste più, gli unici tentativi che sono in corso di superare queste barriere insormontabili sono alcune forme di affirmative action. Ma non basta. Insieme a questo c’è il tentativo di salvare gli ideali repubblicani a qualunque prezzo, anche rimuovendo il mondo reale.

Istruttivo a questo proposito leggere il popolare Alain Finkielkraut (il suo ultimo libro La suele exactitude è un’utile sintesi dello stato d’animo della Francia, non solo di quella che vota il Front National). Il filosofo pop – categoria tipicamente francese – nobilita e sviluppa ragionamenti che altri connazionali si limitano a declinare in invettive: il velo offende la laicità, i matrimoni omosessuali banalizzano il valore sociale del legame e le stesse lotte per l’uguaglianza, i quartieri pieni di arabi suscitano legittima inquietudine perché danno l’impressione di essere in un Altrove incompleto, non Francia e non Nord Africa da turisti, denunciare gli scandali di corruzione tra i politici serve soltanto ad alimentare il qualunquismo (scrive davvero queste cose, non sono mie iperboli).

Terza spiegazione: l’Europa, di fronte al terrorismo, applica il programma lepenista, sospensione della libera circolazione prevista da Shengen, arresti arbitrari, realpolitik con i leader autoritari. I sostenitori del Front National hanno l’impressione di aver sempre avuto ragione: dopo l’austerità (che in Francia non si è quasi vista) non arriva la ripresa ma la stagnazione, dopo l’accoglienza ai rifugiati ecco la violenza, dopo l’apertura delle frontiere ecco la brusca inversione, con i controlli al confine che tornano, con l’implicito riconoscimento che quindi troppa libertà minaccia la sicurezza. Marine Le Pen ha gioco facile a convincere gli elettori di avere migliori idee dei suoi avversari. Il fatto che il programma di governo del Front National non sia davvero applicabile e che la sequenza temporale non implica un rapporto causa effetto, sono argomenti che non fanno presa lontano dal Quartiere Latino di Parigi.

Quarto: il presidente Francois Hollande ha usato la strage per cercare di recuperare un po’ nel suo disastroso rapporto con l’elettorato: ora ha la sua guerra, vuole cambiare la Costituzione, tacitare il dissenso. Era difficile fare peggio di Nicolas Sarkozy. Ma Hollande ci sta riuscendo. Il tentativo di ritrovare una leadership in politica estera non basta, anche perché i disastri dell’intervento in Libia nel 2011 sono ancora troppo freschi per essere dimenticati. E se sulle questioni militari riesce ancora ad avere una voce, su quelle diplomatiche è sempre soltanto il numero due, dietro la Germania o gli Stati Uniti, nessuna visione, nessun progetto.

Non parliamo poi della politica europea: la Francia è scomparsa, ha piazzato Pierre Moscovici nella Commissione per terminare la fase del rigore, ma il commissario è commissariato dai due vicepresidenti Katainen e Dombrovskis, super-rigoristi. La linea stessa del suo governo non è chiara: a parole si oppone alle ricette dettate da Bruxelles, nei fatti affida le possibilità di ripresa alle politiche pro-business del suo ministro dell’Economia Emanuel Macron, senza sfasciare i conti ma anche senza cercare davvero di portare il deficit dal 3,8 all’obiettivo del 3 per cento sul Pil.

Quello che stupisce, insomma, non è che un francese su tre abbia votato Front National. Ma che due su tre abbiano scelto di non farlo.

I rappresentanti dei partiti di governo – in Francia, in Italia, in Spagna – e le istituzioni (in particolare la Bce di Mario Draghi) devono cominciare a studiare un piano B per arginare il populismo. Visto che continuare a promettere crescita attraverso riforme non basta più.