GENOVA – “In quale epoca vi sareste piaciuto vivere?”
“Nel 1942, per vedere realmente la Seconda Guerra Mondiale, visto che i libri parlano pagine e pagine, beh la volevo vivere però tanto so’ donna e il militare non l’avrei fatto e sarei stata a casa” (Miss Italia 2015)
Per arrivare al Teatro Cargo una pensilina in legno e sotto la spiaggia. Periferia di Genova, città allungata come lingua che s’appoggia sul golfo, le colline intorno come trine di un centrino, le scritte dei writer, le panchine che sembrano tende canadesi. Ha vent’anni il Cargo e mi piace dividerlo in C’Argo, come se un po’ di fedeltà, un po’ d’Ulisse, un po’ del viaggio antico, scorresse nelle parole nuove di Laura Sicignano e delle altre donne (solo donne formano la struttura ligure). Un ex fabbricato industriale con i suoi pilastri in cemento massicci, i suoi muri grezzi e scalcinati, i soffitti alti, ti fanno sentire dentro un luogo dove le cose accadono come, al tempo stesso, all’interno di un processo come marchingegno, pezzo di un movimento che gira, si muove, crea, fa nascere. Qui, si fa. Lo testimoniano gli ultimi successi oltre confini della Sicignano (da ascrivere certamente in quel club con Curino, Musso, Costa) che da metà dicembre sarà impegnata prima a Lille e poi a San Pietroburgo.
Donne in guerra (a quattro mani: Sicignano e Alessandra Vannucci) è una delle loro fondamenta: sei donne che descrivono a ventaglio le sfortunate possibilità dopo l’8 settembre. Sei caratteri che s’intrecciano su questo binario (Auschwitz docet) di un telo-sindone intriso di un marrone sangue rappreso, una passerella-ponte verso un unico destino claustrofobico e immobile, orizzontale. Donne autonome, indipendenti, dure, senza perdere femminilità, che fare la guerra non è necessariamente andare al fronte, è anche rimanere e subire le angherie, i soprusi, lo schifo, le torture, le privazioni, gli stupri, la fame, le umiliazioni.
Attorno le foglie secche non preannunciano l’happy end: c’è la convinta fascista che ha trovato una ragione di vita negli ideali forti del Duce, c’è la svampita ritardata traumatizzata (Irene Serini aldamerinesca, con la forza delle sorelle Pasello), c’è la levatrice (e qui ci ha bussato alla memoria “Nati in casa” di Giuliana Musso), la signora ricca impellicciata filogovernativa, la partigiana-staffetta, la ragazza che sognava la bicicletta e andava a lavorare in fabbrica: tutte solide, convincenti, ognuna in un dialetto personale, gruppo compatto e affiatato dalle oltre cento repliche. Il pubblico ai lati (forse più vicino avrebbe avuto ancora più impatto) “viaggia” con loro, negli stessi scompartimenti di questo vagone su un binario morto, in questo ascensore per l’inferno, con un mortaio (simbolo qui del pesto) che tritura esistenze, che randella e frantuma, che dà colpi e scandisce la morte.
“Nel ’42. Sui libri ci sono pagine e pagine, io volevo viverla,