Nella notte del 7 dicembre l'emittente di Silvio Berlusconi ha trasmesso il documentario "Il Presidente", prodotto dalla TV Rossija1, che racconta la vita del leader del Cremlino: una “messa” cantata, con giornalisti in ginocchio e domande così innocue da infastidire persino lo stesso Putin che in qualche occasione ha sfoderato risposte ironiche e sincere. Non un cenno sull'opposizione ridotta al silenzio, sulla la normalizzazione dei media o sulla demonizzazione delle ong
Lo strombazzato, acritico ed imbarazzante documentario “Il Presidente” su Putin che racconta Putin prodotto nel 2014 dalla putiniana TV Rossija1 per festeggiare i suoi quindici anni di potere, è andato in onda nella notte buia ma non tempestosa di lunedì 7 dicembre, quando ormai si assopiva la festa di sant’Ambrogio e soprattutto la stragrande maggioranza dei telespettatori della berlusconiana Rete 4 che l’ha trasmesso in esclusiva. Aver optato per questo punitivo orario è apparentemente una sorpresa, visti i grandi legami d’amicizia tra Sua Emittenza e il capo del Cremlino. Ma una spiegazione potrebbe essere legata al fatto che non vi è traccia di Silvio Berlusconi, nel filmato.
Un’altra, magari seria – forse troppo seria – è che lo standard professionale del documentario è, agli occhi di un pubblico occidentale, abbastanza sconcertante: una “messa” cantata, con giornalisti in ginocchio e domande così innocue da infastidire persino lo stesso Putin che, almeno, in qualche occasione ha sfoderato risposte ironiche e sincere: la parte migliore del documentario. Come quella in cui osserva che la sua ascesa al Cremlino da “perfetto sconosciuto”, da uomo ordinario, e il suo ingresso nel mondo della politica l’ha stupito: “Per vent’anni ho fatto parte dei servizi d’informazione e dell’intelligence. Pensavo, come anche i colleghi di altri Paesi, di sapere tutto. Ma ora vedo che rispetto ai politici, eravamo dei lattanti…”. Il postcomunismo aveva mandato tutto alla malora.
Tutto qui. Non si va oltre l’agiografia più smaccata. E la tesi di fondo che Putin ha salvato la Russia dai cattivi (ovviamente occidentali e specialmente americani) che non volevano una Russia forte e autonoma, tantomeno un’Europa che andasse “da Vladivostok a Lisbona”, un sogno che è rimasto sogno. C’è il Putin che si batte contro “l’unipolarità” (americana), quando la realtà del mondo è ormai “multipolare” – cosa sottolineata, con compiacimento, dal commentatore italiano che intervallava il filmato, con lo scopo di alleggerire, giustificandola, l’indigestione propagandistica (“E’ indubbio che sotto Putin la Russia abbia cambiato passo, Putin è così, di sicuro è un personaggio fondamentale, comunque la pensiate entrerà nei libri di storia”, dice ad un certo punto, e questo è già avvenuto, poiché i manuali scolastici sono stati riscritti secondo le indicazioni del Cremlino…).
C’è il solito Putin – quello dei messaggi all’Assemblea Federale o alla nazione (alle quali ho spesso assistito) che sono un tripudio di piaggeria. Il presidente russo è assai convincente quando spiega come ha portato sicurezza, stabilità e benessere, dopo gli anni della confusione, dell’economia “cecenizzata”, dello sfruttamento incontrollato delle risorse naturali. E’ convincente quando ricorda il primo incontro con gli oligarchi e come li ha messi in riga, gente che pensava d’essere padrona del nostro Paese, un “giorno mi capitarono in ufficio, durante la prima campagna presidenziale, e mi dissero: sei sicuro di diventare presidente? Perché ti sbagli, non lo sarai mai…”. Salvo dimenticare che gli oligarchi, con lui, sono diventati ancor più ricchi. Quelli “amici”…
Ecco il Putin duro e intransigente. Contro i terroristi ceceni. Che ha affrontato senza incertezze. E con qualche accusa, insinuando fossero foraggiati dagli americani, per i quali i ceceni che lottavano contro la Russia con attentati, massacri e sequestri “erano combattenti della libertà, se non ribelli”. C’è il Putin che affronta l’ira e il dolore dei familiari di quei poveri 107 marinai del sommergibile Kursk, trasformato per un’avaria in una bara, “se fosse stato possibile sarei andato io stesso a riportarli su, ma non era possibile né per i nostri tecnici né per quelli stranieri”, la colpa è di chi ha lasciato la Marina in condizioni disastrose, “sapevo che le forze armate erano in uno stato rovinoso, non immaginavo quanto, hanno devastato tutto”. “Hanno”, gli altri, quelli prima di me. Ora, invece, la Russia “è potente, autosufficiente, in grado di difendere se stessa”. Con Putin, infatti, tutto è cambiato.
Il documentario indugia sull’uomo “nuovo” che va a trovare le truppe al fronte nell’inverno del 1999, che rinuncia al brindisi coi generali perché prima “bisogna fare il proprio dovere, sino in fondo”, costi quel che costi. C’è il Putin che ricorda volentieri quando disse che avrebbe eliminato i terroristi, anche se fossero scappati in bagno, “li inseguirò fin dentro i cessi”: la Russia sa cos’è il terrore e non per sentito dire… Beslan, la strage del teatro di via Dubrovka (“il peggiore momento della mia vita”), decisioni difficili da dover prendere, responsabilità cui non ci si può tirare indietro. C’è insomma, tutto l’arsenale propagandistico del regime putiniano, anche lunghi interventi del discusso e discutibile Ramzan Kadirov, il presidente ceceno che ricorda come un tempo avesse combattuto i russi e avesse ottenuto, lui e altri settemila, l’amnistia, diventando il suo più fido alleato.
In ordine sparso parlano ministri e uomini del suo entourage. Qualcuno esagera, in notazioni servili, “non ho mai conosciuto uno che lavori come lui, finisce la notte e ricomincia al mattino, ma quando dorme?”, “è uno che non alza mai il tono, che parla a bassa voce, sempre concentrato sugli argomenti di cui deve discutere”, “sa ascoltare”, e poi si arriva all’idolatria, perché Putin dimostra di imparare “tutto e in fretta”, persino il pianoforte, “ha cominciato a suonarlo con un dito, una settimana dopo con una mano poi con tutte e due…” e subito lo si vede strimpellare al piano, in modo straziante per chi è abituato alle prodezze dei pianisti russi, “pochi sanno che ha studiato l’inglese”, e via con uno stacco su una festa in cui lui, sul palco, balbetta qualche ritornello vagamente english, comunque dimostra sprezzo del pericolo, “non sapeva pattinare, adesso gioca ad hockey”, e via col solito repertorio del Putin judoka, pilota di Formula Uno, su un Sukhoi ultimo modello… sino a due interventi di Sua Santità Cirillo, il patriarca di tutte le Russie, che spiega come la Chiesa ortodossa sia al fianco di Putin e ne approvi il modo di governare, perché “egli serve il proprio Paese in qualità di presidente”. Non manca l’accenno al Putin fedele ortodosso che rispetta le altre credenze…
Però, il problema non sta nell’esercizio sfessante dell’elogio e dell’autoreferenzialità (“non vedo nessun grande insuccesso in tutti questi anni, ho sgobbato tanto nell’interesse del Paese, l’ho salvato dal fallimento. Ho dato a questo Paese uno sviluppo sostenibile e ho dato certezze, la prima volta nella storia della Russia, per le generazioni esistenti e non per quelle del futuro”). No. Il problema non sta in quello che Putin dice di se stesso o in quello che i suoi amici, e gli uomini che lo hanno affiancato al potere, dicono di lui. Tutto questo, in fondo, è interessante, vale come materiale di studio per capire i meccanismi del potere putiniano e quelli del consenso. Il problema sta nelle cose non dette. Nei fatti rievocati senza contraddittorio: la verità a senso unico.
Il problema sta nei vuoti di memorie e di memorie: non un cenno sull’opposizione, tantomeno sull’affare Yukos e su Khodorkovskij che gli fu antagonista (sebbene appaia fugacemente, una distrazione registica, in un filmato dei primi tempi di Putin presidente). Non una parola su Litvinenko avvelenato col plutonio 2010 a Londra. Né sull’invasione della Georgia o sulla secessione del Donbass. Si omettono le decisioni liberticide, la normalizzazione drastica dei media, la vigilatissima libertà di opinione, la demonizzazione delle ong. Non un cenno ai tantissimi omicidi politici, primo fra tutti quello della giornalista Anna Politkovskaja, uccisa nel giorno del compleanno di Putin, il 7 ottobre 2006.
Si narra l’annessione della Crimea come di un atto dovuto, di un ritorno dei suoi abitanti “alla baia, nel porto della loro patria”, non c’era alternativa, “tornare a casa o stare coi fascisti e i neonazisti dell’Ucraina”: ma si tace sulle conseguenze, e le sanzioni non sono viste “come un conto da pagare per la Crimea”, ma come il “costo per il naturale desiderio della conservazione della nazione”. E allora, più che intitolarlo “Il Presidente”, gli autori, o meglio, i trascrittori inginocchiati avrebbero dovuto chiamarlo “l’Omittente”. L’uomo che omette. E che emette. Che depenna dalla Storia, la Storia. E che ricorda solo quello che gli fa comodo.
“Putin è un uomo che non ama vivere furbescamente”, dalla personalità riservata, che si batte per dare alla Russia il ruolo che le compete. Nulla di nuovo. Anzi, tutto déja-vu. E allora, perché mandare in onda questo inventario apologetico proprio in questi giorni? Forse perché si parla di Siria, di come nel 2013 Obama fosse a favore dell’intervento e Putin no, di come la Russia fosse pronta a mettere in campo la propria influenza per lo smantellamento delle armi chimiche, che avvenne. Come dire: Putin ha avuto ragione allora, ha ragione oggi.
Specie quando rimprovera l’America che “vuole decidere da sola, senza chiederci nulla”. Ah, che delusione: “Pensavamo che i fratelli ci avrebbero dato le loro spade”, chiosa citando Puskhin, il suo poeta preferito, invece non ci pensavano affatto. Così, abbiamo fatto da soli. La Putiniade di un uomo, il più potente del mondo secondo Forbes, freddo, educato, riservato, reticente (come deve una spia: “chi entra nel Kgb non lo lascia più”, ma neanche questo viene detto). Sorride a fatica. E i suoi occhi da kagiko di steppe lontane, sono l’emblema della diffidenza. Rossija 1 l’ha celebrato. Ma forse, a lui non è piaciuto tanto.