Mentre la Comunità internazionale si dilania, specie dopo gli attacchi terroristici di Parigi e di San Bernardino, intorno alla questione relativa al come e da chi debba essere condotta la lotta allo Stato Islamico, dovendo ogni discorso vertebrato muovere da premesse esatte, occorrerebbe intendersi, innanzitutto, sul significato della parola “terrorismo”, evocante il ricorso a forme d’intimidazione nei confronti di un destinatario variamente selezionabile, realizzate col ricorso alla violenza, attuale o minacciata, in vista di un obiettivo, che non è ristretto nel contenuto di ogni singola azione terroristica.
Sembra questa l’unica definizione possibile, spingersi oltre la quale sarebbe obiettivo ambizioso, ma velleitario, visto il fuoco incrociato di critiche e obiezioni che ha sin qui sempre accolto simili tentativi. Del resto, il dibattito nelle sedi internazionali, sebbene segnali l’urgenza di un ragionevole compromesso, si arena di fronte alla volontà, comune a molti Stati, di evitare in ogni modo che il Terrorismo venga confuso con la legittima lotta condotta nell’esercizio del diritto di autodeterminazione dei popoli. Meglio, allora, appagarsi di interpretarlo nei diversi contesti in cui si presenta, concentrando il fuoco dell’attenzione, in chiave diacronica, sulle sue manifestazioni, al fine di isolarne i caratteri ricorrenti, in vista del necessario regolamento di confini tra Terrorismo, da un lato, e altri fenomeni che con esso vengono confusi, quali il tirannicidio e la legittima lotta di liberazione contro l’occupazione e l’oppressione nemica.
Primo fra tutti i caratteri distintivi del fenomeno, generalmente riconosciuto, è che il Terrorismo ha a che fare con l’esercizio del potere politico, quali che ne siano le forme istituzionali o ideologiche, mirando la strategia terroristica a istituire una comunicazione con quest’ultimo. Che esso si proponga come soggetto politico dovrebbe consentire di distinguerlo dalla violenza “non politica” espressa dalla criminalità organizzata, perseguendo quest’ultima fini d’ordine economico o di vendette personali o familiari, ma non fini politici. L’assunto, però, è significativamente contraddetto, almeno parzialmente, dall’esperienza italiana: non è casuale che Matteo Renzi, parlando di lotta al Terrorismo dal G20 di Antalya, abbia affermato che l’Italia è un grande Paese, che “ha sconfitto il terrorismo interno negli anni ’70 e ’80 e le stragi di mafia”, individuando, implicitamente, un minimo comun denominatore fra le due “realtà”, vale a dire, le motivazioni politiche che animavano entrambi.
A prescindere dalla scelta selettiva degli obiettivi, prodotta da un disegno strategico, o dall’esercizio indiscriminato della violenza pura, senza distinzione tra le sue vittime, il Terrorismo ha la consapevolezza che il successo della sua azione non può dipendere, come accade invece in guerra, dalla conquista di un certo obiettivo: la determinazione di ricorrere a pratiche terroristiche è assunta soltanto da forze consapevoli della loro incapacità a fronteggiare “direttamente” qualunque avversario. La strategia terroristica è dunque “indiretta”, poiché mira a fiaccare la resistenza dell’avversario, mediante la pressione che le singole e circoscritte operazioni terroristiche producono sull’opinione pubblica, di cui l’avversario stesso deve tener conto. Questa sproporzione di forze e la complessità della strategia del Terrorismo, implica, per un verso, che esso non incontri confini, potendo agire in qualsiasi ambito, quale che sia il contesto; e, per l’altro, che alla sua debolezza faccia da contrappeso la forza che gli deriva dal poter colpire in modo imprevedibile e in qualunque luogo.
Man mano che ci si è inoltrati nel Novecento, accanto ai terrorismi mossi dal disperato tentativo di dare realizzazione a ideali politici legati all’identità rivoluzionaria o a quelli di natura etnico-nazionalista e delle bande armate, si sono affacciati e hanno preso piede i terrorismi di Stato, stadio avanzato di un’impetuosa evoluzione, le cui origini ascendono all’idea stessa di conflitto umano.
Configurazione affatto peculiare ha, peraltro, quel Terrorismo che si contrappone all’ordine internazionale, difeso dalle grandi Potenze anche al di là dei loro diretti interessi. Ne è un esempio, quello palestinese, che ha condotto la sua lotta allo Stato d’Israele, ricorrendo ad attentati senza alcun confine, tanto all’aeroporto di Fiumicino come a quello di Damasco, ad Atene come a Entebbe o su una nave da crociera, come l’Achille Lauro. Ma anche il Terrorismo islamico o jihadista, la cui minaccia, dopo gli attacchi aerei dell’11 settembre 2001, si è radicalizzata nella vita della Comunità internazionale, al punto d’aver avviato il processo di creazione dello Stato islamico all’interno di una vasta regione tormentata dalle guerre settarie e finanziate da sponsor statali, semplicemente tenendosi al passo di un mondo in rapido mutamento e sovraccarico d’informazioni, nel quale propaganda e tecnologia, ma anche il mistero, svolgono un ruolo di primo piano, nello stimolare l’immaginario collettivo, mentre lo stesso non si può dire delle forze impegnate a contrastarne la diffusione.