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Venezuela, l’elogio del chavismo

 

Venezuela ha voltato pagina. Dopo sedici anni di dominio incontrastato, il governo socialista ha registrato una pesantissima sconfitta elettorale alle elezioni legislative. L’opposizione di centrodestra si è aggiudicata 99 dei 167 seggi del Parlamento nazionale. Il partito di governo (Psuv), partito socialista del Venezuela, ha ottenuto solo 46 seggi.
Diciamolo pure apertamente, senza giri di parole: è una tragedia. E non in senso metaforico. Lo diciamo tanto più forte quanto più, anche nel nostro Paese, si alzano cori di giubilo per la fine del chavismo, conditi con le trite e logore retoriche neoliberiste che cantano la “fine della dittatura”, l’avvento dell’open society del libero mercato assoluto, e le mille altre amenità a cui siamo ormai avvezzi e che solo la stupidità generalizzata di questi tempi bui fanno scambiare per “libertà”; come se la libertà umana coincidesse tout court con la libertà dei mercati e delle merci, libere e senza impedimenti.

Insomma, diciamolo anche in questo caso forte e chiaro: l’open society – mai termine fu più orwelliano! – a cui ora pure il Venezuela accederà trionfalmente corrisponde in verità alla società più chiusa dell’intera avventura storica, trattandosi della società in cui tutto è possibile solo a patto che si disponga del valore di scambio equivalente; in assenza del quale, per converso, nulla è possibile, compresa l’istruzione e la sanità. Libertà di cosa e per chi, dunque? Per il mercato, naturalmente: così risponderemmo con un Marx che non smette di fare luce sulla volgarità di un presente in preda alla contraddizione.

Il chavismo ha svolto una funzione benemerita, mostrando la via anche all’Europa alla mercé delle banche e della monarchia del dollaro: ha insegnato a tutti noi la necessità di coniugare nazione e democrazia, falsificando in atto l’equazione che identifica la nazione con la destra e con il fascismo. La nazione, nel tempo dell’internazionale finanziaria e liberista, può e deve costituire il vettore della democrazia e dell’emancipazione, garantendo, per mezzo dello Stato, diritti sociali e civili inaccessibili per le leggi del do ut des mercatistico.

Il superamento degli Stati nazionali – qualcuno ancora non l’ha capito? – non sta portando al sol dell’avvenire, ma al dominio monocratico del sistema internazionale delle banche e del capitale finanziario. Chavez l’aveva pienamente capito: e aveva capito che il solo modo per continuare oggi nella lotta che fu di Marx contro il classismo planetario e contro l’alienazione che esso secerne consiste nel difendere la potenza dello Stato nazionale come fonte del primato della politica sull’economia, come forza in grado di disciplinare e regolare l’economico, come potenza capace di tutelare gli interessi dei più deboli e di garantire diritti sociali altrimenti destinati a sparire in nome della “competitività internazionale”, il dogma preferito della teologia neoliberista.

Il chavismo, ancora, ha insegnato a tutti la possibilità di resistere come Stati alla “globalizzazione”, ossia al pudico nome che attribuiamo a questa terza fase dell’imperialismo: successivo all’imperialismo mercantilistico (tratta degli schiavi, ecc.) e all’imperialismo classico (quello studiato da Lenin, per intenderci), l’odierno imperialismo che si chiama globalizzazione è quello che coarta ogni popolo del pianeta a entrare nel modello del mercato unico e del progresso capitalistico, e che sgancia bombe non appena incontri resistenze (Iraq, Libia, ecc.). Ha insegnato – vorrei dire – che non tutto è perduto, finché si resiste, e che la globalizzazione a stelle e strisce è inarrestabile solo se non si lotta per arrestarla.

Ancora, il chavismo ha insegnato, a noi europei obnubilati dall’individualismo estremo e dalle lotte iperindividuali sempre e solo per i diritti civili dell’io isolato (nel completo oblio del sociale e del tema del lavoro), la necessità di difendere i lavoratori e i diritti sociali contro la “sacra fames” del capitale finanziario globalizzato. Ha continuato, a suo modo, nella lotta che fu di Marx, schierandosi in modo fermo e onesto dalla parte del lavoro e dei lavoratori.

Ancora, il chavismo ha affrancato il Venezuela dall’analfabetismo e ha garantito assistenza medica e medicinali gratuiti. Ha combattuto fermamente contro la povertà e la miseria, così diffuse in quelle aree. Tutte patologie che stanno gradualmente riaffiorando ove il modo della produzione capitalistica cessi di essere contenuto e governato dalla forma statale tipica della fase fordista.

Per queste, e per molte altre ragioni, il chavismo è stata un’esperienza positiva e feconda. Quanti oggi giubilano per la sua fine o sono in cattiva fede o, semplicemente, non sanno quel che fanno. Proprio come quelli che hanno elogiato per la caduta dell’Unione Sovietica. Il futuro del Venezuela pare essere scritto e non occorre disporre di una sfera di cristallo per prevederlo: privatizzazioni e competitività globale, libero mercato, servilismo integrale alla monarchia del dollaro. Non vi è proprio nulla da festeggiare in un giorno di lutto come questo.