di Davide Bonsignorio *

E’ di un paio di settimane fa la notizia dei primi licenziamenti di lavoratori assunti con i contratti a “tutele crescenti” previsti dal Jobs act; si tratta di persone assunte presso grosse aziende industriali ed allontanate dopo pochi mesi, al primo calo di fatturato lamentato dall’impresa, per “giustificato motivo oggettivo”.

Reddito minimo garantito

In base alla nuova legge, ove questi lavoratori impugnassero in Tribunale il licenziamento e riuscissero a fare accertare che era infondato, il giudice non potrebbe comunque ordinare la loro reintegrazione nel posto di lavoro; questo rimedio infatti non è più previsto per i licenziamenti dettati da ragioni economico/organizzative dell’impresa, ed è molto più difficile da ottenere anche per i licenziamenti fondati su pretese mancanze del lavoratore; il giudice potrebbe solamente condannare il datore di lavoro a pagare un’indennità risarcitoria pari a quattro mensilità dell’ultima retribuzione (questo essendo nello specifico trascorso meno di un anno dall’assunzione; a partire dal secondo anno, l’indennità aumenterebbe di due mesi e così via ogni anno fino ad un massimo di 24 mensilità) .

Come denunciato e paventato anche su questo blog, il Jobs act ha cominciato dunque ben presto a mostrare il suo lato più oscuro, ossia la trasformazione dei lavoratori assunti a partire dal 7.3.2015 in “precari a tempo indeterminato”, facilmente e convenientemente licenziabili con il pagamento, nel peggiore dei casi, di un indennizzo che per la sua esiguità non costituisce né un deterrente per il datore di lavoro, né un adeguato risarcimento per il dipendente.

Condivido l’appello lanciato da chi esorta a non rassegnarsi a questa situazione ed invita anche i sindacati a cercare di reintrodurre tramite i contratti collettivi quelle forme di tutela oggi non più previste dalla legge; invece, per quello che riguarda l’esiguità degli indennizzi previsti dalla legge penso che noi avvocati pro labour dovremo abituarci a denunciare e fare valere nelle aule di Tribunale anche tutti i danni ulteriori che un lavoratore subisce a seguito di un licenziamento ingiusto.

La casistica, come si può immaginare, può essere la più varia se si pensa ai problemi che crea la perdita improvvisa del posto di lavoro: dall’impossibilità di far fronte al pagamento del canone di affitto o del mutuo (con conseguente rischio di perdere la propria abitazione), alla necessità di dovere contrarre un prestito oneroso per affrontare le esigenze del vivere, fino alla necessità di dovere ridimensionare lo stile di vita proprio e della propria famiglia in ragione della perdita del reddito da lavoro, o all’insorgere di veri e propri problemi di salute quali stati ansiosi o depressivi; e l’elenco potrebbe continuare.

Non è quindi irragionevole pensare che eventi di questo tipo, se e in quanto derivanti dalla ingiusta perdita del posto di lavoro, possano dare luogo ad un risarcimento (eventualmente quantificato in maniera equitativa ed anche sotto il profilo del danno esistenziale derivante dal peggioramento della qualità della vita) secondo le norme ordinarie del diritto civile come qualunque altro tipo di danno derivante da un illecito contrattuale; del resto, la giurisprudenza formatasi negli anni sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori già ammette in linea di principio la risarcibilità dei danni ulteriori rispetto alla perdita della retribuzione che derivino dal licenziamento ingiusto, come la perdita di professionalità per la mancata reintegrazione o il danno esistenziale per peggioramento della qualità della vita, purché adeguatamente e specificamente individuati e provati.

Certo, le richieste risarcitorie dovranno essere specifiche e riguardare i danni che siano conseguenza immediata e diretta del licenziamento ingiusto, ed essere corredate da documentazione che comprovi tale nesso causale e l’entità dei danni stessi; inoltre, sempre secondo i principi del codice civile, il lavoratore dovrà all’occorrenza provare di avere fatto il possibile per limitare tali danni cercando un nuovo impiego.

Recentemente, in una fattispecie per certi aspetti simile a quella che può crearsi a seguito di un licenziamento ingiusto con perdita definitiva del posto di lavoro, una sentenza del Tribunale di Milano (n° 2426/2015, est. Moglia) ha condannato un’azienda, che per mesi non aveva pagato la retribuzione ad una propria dipendente portandola a subire il taglio delle utenze domestiche per morosità ed esponendola addirittura al rischio di perdere la propria abitazione, a risarcire alla lavoratrice anche il danno per la sofferenza e il disagio psicologico derivati da tale situazione.

Denunciare tutti i danni “collaterali” derivati da un licenziamento ingiusto può dunque essere un modo per tornare a discutere di dignità del lavoro; questa infatti è stata poco valutata dalle recenti riforme, attente invece a togliere dalle mani dei giudici qualsiasi discrezionalità pur di assolvere le aziende anche dalle scelte “economiche” più sconsiderate.

* Giuslavorista, socio Agi associazione giuslavoristi italiani. Esercito la professione di avvocato dalla parte dei lavoratori e dei sindacati; ho collaborato con diverse riviste specializzate del settore. Vivo e lavoro a Milano.

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