Islamici "banditi", offese ai disabili, discriminazioni verso donne e messicani. Sono soltanto alcune delle boutade del candidato repubblicano, condannate dai vertici del partito. Ma ad altri livelli non suscitano lo stesso sdegno
Riuscirà il partito repubblicano a sopravvivere a Donald Trump? E’ la domanda che si fanno in molti, dopo la richiesta del magnate e candidato alla presidenza di “impedire ai musulmani l’entrata negli Stati Uniti”. Il problema, a questo punto, non è infatti tanto quello di assorbire la nuova dichiarazione a effetto di Trump. Il problema è il caos che lui sta portando in campo repubblicano. Con conseguenze, appunto, potenzialmente distruttive.
Il giorno dopo le dichiarazioni sugli islamici, Trump non indietreggia. Anzi. A un evento in South Carolina per l’anniversario di Pearl Harbor – data che non potrebbe essere più significativa, trattandosi proprio di un attacco al suolo americano – il candidato ha ammesso di essere stato “probabilmente non politicamente corretto”, ma ha aggiunto: “Non m’importa. Ciò di cui abbiamo bisogno è una chiusura totale all’entrata dei musulmani negli Stati Uniti, mentre cerchiamo di capire cosa diavolo sta succedendo. Il fatto è che la situazione è ormai fuori controllo”.
Nessuno del resto ha mai davvero pensato che Trump potesse fare marcia indietro. Il “pentimento” politico, le scuse, non appartengono a un candidato che ha costruito la sua campagna politica su una serie di affermazioni ora roboanti, ora clownesche, ora beffarde, ora volutamente scioccanti. A giugno Trump aveva detto che il governo messicano “manda negli Stati Uniti i suoi stupratori”. A luglio aveva ridicolizzato le credenziali di guerra di John McCain: “Non è un eroe di guerra. E’ un eroe soltanto perché è stato catturato? A me piacciono quelli che non vengono catturati”.
In agosto era stata la volta di una giornalista di Fox News, Megyn Kelly, che aveva osato fargli domande troppo puntute. “Le esce sangue da ogni parte”, aveva commentato Trump. Le dichiarazioni sessiste erano continuate con gli attacchi all’unica candidata donna dei repubblicani, Carly Fiorina: “Ma guardatela in faccia. Qualcuno può immaginare un presidente Usa con quella faccia?”. Infine, a novembre, era arrivata l’imitazione, dal podio di un comizio, di un reporter disabile del New York Times.
La richiesta di bando dei musulmani rappresenta però un balzo in avanti. Anzitutto perché introduce nel dibattito pubblico americano – quello più mainstream, ufficiale, quello di una campagna per la presidenza – affermazioni apertamente razziste. Nessun candidato, almeno in tempi recenti, aveva osato mettere in discussione quello che, almeno sul piano dei principi, resta un pilastro indiscusso della società americana: la necessità di “non discriminare” sulla base delle appartenenza etniche e religiose. Quello che invece Trump fa, per di più in un Paese nato dalla necessità di sfuggire l’intolleranza religiosa, è proporre misure di discriminazione nei confronti dei membri di un preciso credo religioso.
Il problema ulteriore, e che preoccupa davvero la classe dirigente repubblicana, è che l’appello di Trump non incontra soltanto la condanna roboante. Certo, il coro di critiche dei big del partito è unanime. Paul Ryan, da poco speaker della Camera, spiega che “questo non è vero conservatorismo… La proposta di Trump non è la posizione del partito e, anzitutto, non è espressione di questo Paese”. “Right to Rise”, il super-PAC che finanzia la campagna elettorale di Jeb Bush, ha prodotto uno spot televisivo che definisce Trump “impulsivo e incosciente”, quindi inadatto a sedere nello Studio Ovale. E lo stesso Dick Cheney, l’architetto della “war on terror”, ha definito “la nozione di mettere al bando un’intera religione, contraria allo spirito americano”.
Il fatto è, appunto, che questa è la reazione della leadership. Se dai piani alti della politica repubblicana si scende un poco più in basso, le affermazioni di Trump non suscitano altrettanto sdegno. Ted Cruz, altro candidato alla presidenza e con un profilo simile a Trump in tema di denuncia degli effetti dell’immigrazione – non a caso proprio Cruz appare in testa nei più recenti sondaggi in Iowa, il primo Stato dove si terranno le primarie, il prossimo 1 febbraio – ha detto di “apprezzare Trump per la sua capacità di concentrarsi sul bisogno di frontiere sicure”. E dalla schiera di commentatori conservatori è arrivata più di una voce di sostegno. “Chi pensa che le parole di Trump danneggino la sua campagna, non ha capito nulla del polso del popolo americano”, ha scritto Laura Ingraham.
Il magnate repubblicano dà quindi voce alle pulsioni più oscure, inconfessabili, non dette di vasti settori dell’elettorato conservatore. E così facendo, incarnando una miscela esplosiva di demagogia e conservatorismo, rischia di far saltare in aria un partito sempre più diviso, in cui le vecchie élites della East e della West Coast, pro-business e moderatamente liberal sulle questioni sociali e morali, appaiono spinte ai margini dai gruppi più radicali, populistici, portatori di un’ideologia di millenarismo politico impermeabile a ogni compromesso. Lo ha capito molto bene Rick Wilson, uno degli strateghi elettorali repubblicani più di lungo corso, quando ha detto: “Molti tra i fan di Trump non vogliono che il partito sopravviva. Quello che vogliono è una forma di partito nazionalista e populista che non c’entra nulla con la Costituzione”.
I timori di Wilson sono stati del resto rilanciati dalla stesso Trump, che nel suo ultimo comizio ha avvertito: “Il 68% dei miei sostenitori è pronto a votarmi anche se lascio il partito repubblicano e mi presento da indipendente”. Come a dire: c’è una parte consistente dell’elettorato conservatore che è pronto a far esplodere il G.O.P. in tanti pezzi diversi, mettendo la parola fine alla sua storia politica.