Erano una sorta di service che si occupava del recupero della cocaina all’interno dei container in arrivo dal Sud America al porto di Gioia Tauro. Dipendenti infedeli che potevano muoversi liberamente al servizio delle cosche, non solo di ‘ndrangheta ma anche di Cosa Nostra e di Camorra.

Diciotto su 19 imputati oggi sono stati condannati a pene pesantissime nel processo “Puerto liberado” che si è celebrato con il rito abbreviato e che è nato da un’inchiesta della Guardia di Finanza di Reggio Calabria.

Oltre due secoli di carcere sono stati inflitti dal gup di Reggio Calabria, Barbara Bennato, che ha accolto sostanzialmente le richieste del pm Luca Miceli.

I fratelli Alfredo e Giuseppe Brandimarte, considerati gli “inventori” delle squadre di recupero della cocaina, sono stati condannati a 20 anni di carcere per aver messo in piedi una vera e propria società di servizi specializzata nella gestione e nella fuoriuscita della droga dal porto di Gioia Tauro che, proprio in questi giorni, ha subito un accesso antimafia attraverso cui la prefettura e le forze dell’ordine stanno passando al setaccio le aziende che stanno eseguendo lavori pubblici sulla banchina dello scalo.

A pochi metri dove, fino al 24 luglio 2014 (giorno in cui è scattato il blitz di “Puerto Liberado”), agiva il gruppo criminale, guidato dai fratelli Brandimarte e composto da sei soggetti, tra dipendenti ed ex dipendenti della società che opera sui moli del porto. Nel processo era stato coinvolto, inoltre, il rappresentante legale di una società di trasporti. Nel corso delle indagini, dal 2011 al 2014, gli uomini del Nucleo di Polizia Tributaria delle fiamme gialle (guidato all’epoca dal colonnello Domenico Napolitano e oggi dal colonnello Luca Cioffi) hanno sequestrato quattro tonnellate di cocaina droga per un valore sul mercato di 800 milioni di euro.

L’inchiesta “Puerto Liberado” era stata avviata con l’arresto di Vincenzo Trimarchi, dirigente della Mct, la società di gestione della banchina merci, sorpreso mentre tentava di allontanarsi dal porto di Gioia Tauro su un furgone con 560 chili di cocaina purissima.

Le intercettazioni telefoniche e l’attività investigativa hanno fatto il resto, consentendo alla Guardia di Finanza di andare oltre e di capire che non si trattava di un caso isolato ma di un’organizzazione che aveva al suo vertice Giuseppe Brandimarte, ex dipendente del porto, il quale godeva della collaborazione di diversi dipendenti tra cui il fratello Alfonso (anche lui ex dipendente del porto). Quest’ultimo, secondo la ricostruzione della Dda di Reggio, ha preso le redini della gestione del gruppo dopo l’arresto di Giuseppe.

In sostanza si trattava di un gruppo capace anche di modificare la tecnica di recupero della droga a secondo delle esigenze dell’ultimo momento. Questo avrebbe garantito la fiducia delle maggiori cosche di ‘ndrangheta ai fratelli Brandimarte che, per il servizio, si facevano pagare con una parte del carico che variava tra il 10% e il 30% di cocaina.

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