La stagione di intolleranza – reale o percepita, a seconda delle versioni – che l’India sta vivendo da qualche mese a questa parte, in settimana si è arricchita di un episodio sintomatico degli animi di molti indiani. Nella giornata di domenica 29 novembre un video girato con uno smartphone e caricato su Youtube (e ora rimosso) mostrava un gruppo di persone, in una sala cinematografica, intento a minacciare una coppia – o una famiglia, non è chiaro – rea di non essersi alzata in piedi durante la tradizionale diffusione dell’inno nazionale indiano che precede ogni proiezione nel paese.
I commenti al video, in poche ore diffuso viralmente per la Rete indiana, bollavano i due spettatori seduti durante l’inno, e cacciati dalla sala dalla folla, come “musulmani anti-India“: accusa campata in aria – ma improvvidamente ripresa dal nazionale Times of India – considerando che non è stata ancora individuata nemmeno l’ubicazione del cinema in questione: c’è chi dice Mumbai, chi Bangalore. Gli utenti indiani si sono divisi tra chi denunciava l’affronto alla sacralità di Jana Mana Gana, inno nazionale scritto e composto nel 1911 dal premio Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore che – ironicamente, in questo caso – sottolinea il carattere pluralista e multiculturale dell’India che sarebbe venuta, e chi invece riteneva eccessiva la reazione sciovinistica di una parte dell’opinione pubblica, considerando che non esiste una legge in India che imponga di alzarsi in piedi durante l’inno nazionale. La dicitura del codice impone di “non disturbare”.
È vero però che in passato il mancato rispetto tributato all’inno nei cinema è stato strumentalizzato per violenti attacchi personali. È successo ad Ameesha Patel, diva di Bollywood, massacrata online per essere rimasta seduta durante le note di Jana Mana Gana, nonostante l’attrice abbia provato a scusarsi dichiarando di soffrire di “un problema da femmine”: come nella pudica India si indicano le mestruazioni. O, ancora più noto, l’episodio che ha interessato nel 2014 M. Salman, cittadino di Thiruvananthapuram (Kerala), che il 20 agosto è stato arrestato con l’accusa di “sedizione” per aver disturbato – stando seduto e facendo versi – la trasmissione dell’inno nazionale in una sala cinematografica. Dopo quasi un mese di carcere, l’Alta Corte del Kerala ne ha disposto la libertà su cauzione.
La polemica nazional-popolare si inserisce in un dibattito panindiano sollevato da diversi intellettuali del paese, che hanno denunciato il clima di intolleranza verso la libertà d’espressione e di culto che si respira in India – secondo i detrattori – dall’insediamento dell’amministrazione Modi. Narendra Modi, primo ministro indiano dal maggio del 2014 e leader del partito conservatore hindu Bharatiya Janata Party (Bjp), è accusato dalle opposizioni e da una discreta parte della comunità intellettuale nazionale di non essersi esposto abbastanza per difendere i progressisti e le minoranze religiose del paese dall’avanzata dell’estremismo hindu.
Negli ultimi sei mesi episodi di violenza perpetrati da elementi vicini alla destra hindu extraparlamentare e non (vicini al Bjp) hanno preso di mira scrittori progressisti e attivisti atei (uccidendo Govind Pansare e MM Kalburgi), cittadini musulmani (linciando Mohammad Akhlaq, accusato di mangiare carne di mucca; ma, si scoprì poi, era montone), famiglie dalit (due bambini arsi vivi il mese scorso poco fuori New Delhi) ed esercizi commerciali che “insultano la sensibilità hindu”. La comunità intellettuale nazionale ha reagito con una riconsegna di massa di premi insigniti in passato dalle istituzioni nazionali. Iniziativa a cui hanno aderito decine di scrittori, accademici universitari, musicisti e registi, mentre addirittura due superstar del grande schermo com Amir Khan e Shah Rukh Khan (entrambi musulmani) sono stati messi alla gogna pubblica per aver denunciato il clima d’intolleranza nel paese.
Salvo un paio di vaghi riferimenti alla tolleranza nazionale e tradizionale, Modi sembra aver deciso di non esporsi in prima persona. Le frange più estremiste del Bjp, intanto, continuano a gettare benzina sul fuoco, rintuzzando la polemica identitaria contro i “sickular” – come in gergo dispregiativo viene chiamato chi difende il carattere secolare dell’India post indipendenza – che, parafrasando il ministro delle finanze Arun Jaitley, strumentalizzano “incidenti” sporadici per attaccare il governo in carica.
di Matteo Miavaldi, New Delhi