Ieri ho ricevuto una lezione inaspettata. Una di quelle che colpiscono come un pugno nello stomaco e, contemporaneamente, ti sostengono per non farti cadere. Una di quelle che non ti aspetti e che ti fanno rimanere in silenzio, senza parole.
E’ iniziato tutto con un “parteciperò” cliccato da un mio amico su un evento Facebook intitolato “Dead Poets Society”. La setta dei poeti estinti. Ricordo come se fosse ieri quando la mia professoressa di lettere del liceo ci portò in sala cinema per farci vedere quel film, “L’attimo fuggente”. Avevo appena 16 anni e rimasi estasiata da quello che, ancora oggi, rimane il mio film preferito. Per anni ho cercato una mia “setta dei poeti estinti” ma senza fortuna.
Oggi, a trentun’anni, dopo aver vissuto esperienze che lasciano cicatrici addosso, mi rendo conto di non avere più gli entusiasmi e, soprattutto, le speranze di cambiare il mondo che avevo da adolescente. Eppure, quando ho posato gli occhi su quel “parteciperò”, c’è stato qualcosa che mi ha attirata inesorabilmente, anche se la poesia, come forma di comunicazione, con il passare degli anni mi è piaciuta sempre meno a favore di una prosa più diretta e meno “depistante”. Seppur con qualche riserva, ho deciso che avrei soddisfatto, a quindici anni di distanza, quel sogno che avevo da adolescente.
Così ieri il mio amico ed io abbiamo partecipato alla nostra prima riunione della setta dei poeti estinti. Mentre osservavo i partecipanti riempire la sala, la stragrande maggioranza sui vent’anni, mi domandavo se mi sarei sentita fuori posto, se avrei ascoltato dichiarazioni d’amore come quelle di Knox Overstreet per il suo primo amore. Guardavo interagire quei ragazzi e, con tanta tenerezza ed un po’ di nostalgia, sentivo tutta la distanza di quei dieci anni di esperienze che ci dividevano.
Poi hanno iniziato a parlare. E, un intervento dopo l’altro, sprofondavo sempre più nel divano dove ero seduta, sentendomi sempre più piccola. Altro che dichiarazioni d’amore alla Knox Overstreet. Parole dirette, pungenti, crude, vere, autentiche, mai banali, che parlavano di loro, delle loro paure, del loro smarrimento, del loro coraggio, della loro – come qualcuno ha tenuto a sottolineare – coscienza, del loro bisogno di essere accettati per quello che erano. E’ stata una guerra contro le maschere verniciate di bianco che questa società sembra imporre ad ogni suo cittadino. Una guerra che, in quella sala, hanno vinto tutti quanti, anche quelli che non hanno parlato.
Eleanor Roosevelt diceva che le menti piccole parlano di persone, quelle mediocri di fatti, mentre le grandi menti parlano di ideali. Ecco, in quella sala non c’erano uomini piccoli, perché nessuno si è azzardato a schernire l’esternazione di un altro, ma non c’erano neanche persone mediocri, perché non si è mai fatto riferimento a un episodio che non portasse poi ad una considerazione personale, un pensiero, un sentimento. Ma la signora Roosevelt, e lo dico in punta di piedi, credo abbia dimenticato il gradino che, se non superiore, è almeno parallelo a quello degli ideali: le emozioni. I presenti in quella sala mi sono sembrati menti doppiamente grandi poiché mentre parlavano dei loro ideali, esprimevano anche le proprie debolezze, ciò che più li rendeva umani. Con un coraggio non indifferente si sono esposti, si sono fidati, fidati che gli altri li avrebbero ascoltati e non aggrediti. Chapeau.
Ero andata là pensando di dare il mio “saggio” contributo e, nella migliore delle ipotesi, di trarre dall’incontro e da quei ragazzi un po’ di speranza nel futuro. Quello che ho ricevuto, invece, sono state vere e proprie lezioni di vita e, alla fine, non ho potuto fare altro che dire loro “grazie”. Chiedendo quando sarebbe stato il prossimo incontro.