Aeroporto di Tel Aviv – In tanti anni qui, è la prima volta che arrivo in aeroporto, e penso solo: finalmente. E’ la prima volta che è bello andare via.
Mi è stato chiesto di raccontare Hebron, l’epicentro di questa specie di Intifada. E l’occupazione, a Hebron, è l’occupazione. Che non è tanto questione di forza militare, in realtà, perché l’obiettivo non è la sicurezza, qui, l’obiettivo è complicarti la vita fino a sfinirti: e indurti a trasferirti altrove. A lasciare questa terra. E quindi a parte questi coloni che cammini e ti sputano, ti tirano addosso di tutto, ti insultano, e il giorno di shabbat ti si piazzano davanti il cancello di casa con il tavolino del picnic e le sedie di plastica e a te ti tocca stare dentro tutto il tempo, perché hai tre soldati alla porta, e il pericolo sei tu, anche se tu sei solo un giornalista, hai solo una penna, in mano, e loro invece sono tutti armati, a parte la signora Anat Cohen che cercava di investirmi con l’auto, per il resto hai l’esercito ovunque: e non capisci mai cosa ti è vietato e cosa no.
Un minuto prima passi, un minuto dopo non passi. Un minuto dopo è zona militare chiusa. Anche se chiusa significa che è aperta dalla parte opposta, se per caso vuoi accoltellarli, devi solo allungare di due chilometri e passare tra i campi e sentieri serrati e scoscesi, ed entrare in casa dai tetti, dalle finestre, e se ti si rompe un tubo, chiamare un idraulico dal Giappone, piuttosto che da Hebron, perché gli stranieri possono entrare, ma i palestinesi no. Solo i residenti. E comunque ti confischerebbero gli attrezzi al primo checkpoint: e quindi stai qui, con l’acqua fredda, o senz’acqua, con l’esercito che ogni tanto ha bisogno di casa tua e ti rinchiude in una stanza per un giorno, e i droni in testa, gli F-16, le bombe sonore, sparatorie sparse, e dopo le sei, quando è buio, un coprifuoco di fatto, perché nessuno si azzarda a uscire, e se per caso sei ancora fuori, perché stai vagando da ore in cerca di una strada per rientrare, e come se non bastassero i coloni, se non bastassero i soldati, Hebron è anche piena di cani randagi, a ogni passo ti ritrovi un fucile puntato addosso di uno che sbraita in un ebraico che non capisci. Cammini, a Hebron, e hai paura. Nient’altro.
Che sia giorno, che sia notte, hai paura.
E paura anche dei palestinesi. Perché poi tu sei straniero, e potresti anche essere un israeliano: e quindi cammini, e ti guardi le spalle. La cosa più demenziale, qui, è che si somigliano così tanto gli uni agli altri, che capita che per sbaglio aggrediscano il vicino di casa.
Questo posto è tossico. Gli israeliani ammazzano come niente fosse: una ragazzina, a cinque metri di distanza, tira fuori un coltello con una lama che al più puoi spalmarci la Nutella, e i soldati non provano a disarmarla, sparano. E sparano alla testa. E restano lì a guardare mentre quella rantola e sanguina a morte. Ma i palestinesi, a fronte di tutto questo, a fronte di un morto al giorno, non hanno di meglio da fare che beccarsi. E non parlo solo di Hamas e Fatah, che sono irrecuperabili, ormai, e pensano solo ai propri interessi, i propri affari, li riconosci perché girano in auto sportive senza targa, di mestiere tutti imprenditori – e con chi sono in affari, tra l’altro? Con Israele. No. Parlo degli attivisti. Parlo di quelli che dovrebbero sostituire Hamas e Fatah. E che invece litigano tutto il tempo, e manco per questioni politiche: per questioni di ego: e si accusano reciprocamente di tradire le mogli, di bere alcool, di importunare le straniere. E non hanno nessuna strategia. E né nessuna capacità di riconoscere i propri errori. Chiamano resistenza questi ventenni senza lavoro, senza libertà, senza futuro, che si avventano con un coltello contro il primo israeliano.
Anche se l’unica cosa che ottieni, così, è che vieni ucciso. Chiamano Intifada la disperazione. Pensano che in fondo, se Israele si ostina a non accettare i due stati, in breve questo sarà uno stato unico, sì: ma uno stato arabo. Alla forza militare, oppongono la forza demografica. Confidano nel tempo. Come anche Israele – e questa è l’unica cosa che israeliani e palestinesi al momento hanno in comune. Mentre l’attenzione del mondo è tutta per la Siria, per l’Isis, i rifugiati, Israele confisca terra e costruisce, costruisce, costruisce. Si allarga.
La verità è che la pace, qui, non solo non passa attraverso i negoziati: non passa attraverso questa generazione. Che non capisce che quando non puoi né vincere né perdere, quando nessuno prevale, e sono settant’anni, qui, che nessuno prevale, l’unica è cambiare.
E confida nel tempo, invece, dimenticando che quel tempo è la sua unica vita.
Sprecata così.