La Cassazione aveva disposto di rivedere al ribasso le pene per la prescrizione e la riqualificazione di alcuni reati. Secondo l'accusa l’ex presidente della Banca di Roma e di Mediobanca sarebbe stato il regista della compravendita delle acque siciliane del gruppo Ciarrapico da parte di Collecchio. La difesa dell'ex dg di Capitalia ha presentato richiesta di revisione
Quattro anni e sei mesi all’ex presidente di Banca di Roma-Capitalia Cesare Geronzi, tre anni e sei mesi all’ex dg Capitalia Matteo Arpe. Sono le pene rideterminate dalla II sezione penale della Corte di Appello di Bologna nel nuovo giudizio di secondo grado per la vicenda della vendita delle acque Ciappazzi, filone nato dall’inchiesta sul crac Parmalat del 2003. La Cassazione aveva disposto di rivedere al ribasso le pene per la prescrizione e la riqualificazione di alcuni reati, anche se il sostituto procuratore della Cassazione, Pietro Gaeta, aveva chiesto la conferma delle condanne inflitte nel filone del processo Parmalat relativo alla compravendita delle acque minerali Ciappazzi.
Secondo l’accusa l’ex presidente nell’ordine della Banca di Roma, di Capitalia, di Mediobanca e delle Generali, sarebbe stato il regista della compravendita delle acque siciliane del gruppo Ciarrapico da parte di Collecchio, avvenuta nel 2002 per 15,2 milioni di euro, un dodicesimo del prezzo al quale l’azienda era stata faticosamente battuta all’asta dopo il crac Parmalat avvenuto a poco più di un anno dall’acquisto. Un’interpretazione in linea anche con le dichiarazioni dell’ex re del latte Calisto Tanzi, che per la vicenda è già stato condannato nell’ambito del filone centrale del processo Parmalat e secondo il quale Collecchio sarebbe stata costretta da Capitalia (oggi Unicredit) a comprare l’azienda per continuare ad avere finanziamenti dalla banca romana fortemente esposta anche nei confronti dell’amico Ciarrapico.
Le acque Ciappazzi, secondo l’ipotesi dell’accusa, avevano un valore pressoché nullo, come sospettavano all’epoca alcuni consulenti della stessa Parmalat. “Geronzi, svolgendo in sostanza le funzioni di motore e di massimo supervisore della trattativa che portò all’acquisto della Ciappazzi ad opera della società Cosal – scrivevano i giudici nel motivare la sentenza di primo grado – indusse Calisto Tanzi, per motivi attinenti esclusivamente agli interessi economici di Banca di Roma, ad acquistare per un prezzo esorbitante un’azienda che versava in uno stato fallimentare”. Ad Arpe, invece, era stata contestata la firma sul documento di trasmissione del finanziamento ponte da 50 milioni a Parmalat, che era già stato approvato dal cda della Banca di Roma in concomitanza con l’acquisto della Ciappazzi e subito girato da Collecchio all’ancor più decotta Parmatour, alla quale sarebbe stato proprio impossibile concedere un finanziamento diretto.
Nel corso dell’udienza dell’appello bis del processo gli avvocati di Arpe, Domenico Pulitanò e Valerio Onida, hanno fattop sapere che il 23 novembre è stata depositata alla Corte di Appello di Ancona una richiesta di revisione basata su “una serie di nuovi documenti e riscontri che fanno cadere del tutto le presunzioni sulle quali è stato costruito l’intero impianto accusatorio nei confronti di Matteo Arpe, provando così la sua totale estraneità agli avvenimenti di cui al processo e non solo alla vicenda Ciappazzi dalla quale è già stato assolto. All’epoca dei fatti, ottobre 2002, Matteo Arpe rivestiva da pochi mesi la carica di direttore generale di Capitalia – si legge in una nota -. Come emerso nel corso dei vari gradi di giudizio, Arpe si era sempre opposto al finanziamento richiesto dalla società Hit (gruppo del Turismo di Tanzi). In sua assenza, in quei giorni era impegnato nella presentazione all’estero del nuovo piano industriale di Capitalia, fu invece deliberato un finanziamento a Parmalat che lo girò a Hit/Parmatour (secondo una prassi adottata dal Tanzi sin dagli anni Novanta, come successivamente accertato dai giudici)”.
“Dopo la conclusione del primo processo è stato rinvenuto in particolare un nuovo documento – prosegue la nota – il quale prova che la lettera firmata dal dottor Arpe, ritenuta dai giudici unica condotta penalmente rilevante imputabile all’Arpe, non costituiva affatto l’autorizzazione al finanziamento di Parmalat ai sensi dell’art. 136TUB, ma la mera vincolata trasmissione di quanto deliberato dall’organo competente (il Comitato Crediti di Capitalia) in assenza del dottor Arpe. La portata di detto nuovo documento risulta coerente con la ricostruzione normativa fornita da pareri di insigni giuristi esperti della materia. Tale ricostruzione mette in crisi, evidenziandone le gravi aporie, l’interpretazione dei documenti agli atti data dai giudici e posta a fondamento della condanna di Matteo Arpe”.