Gestiva i cordoni della borsa con l’oculatezza tipica di una madre di famiglia. Solo che il denaro amministrato da Teresa Marino, 38 anni e cinque figli, era quello del clan di Porta Nuova, una delle più prestigiose famiglie nella storia di Cosa nostra. Guidato in passato da pezzi da Novanta come Pippo Calò, il cassiere di Cosa nostra, e Vittorio Mangano, lo stalliere di Silvio Berlusconi, adesso al vertice del rione di Porta Nuova sedeva una donna, cugina di un padrino importante come Tommaso Di Giovanni, che ha preso in mano lo scettro del potere dopo l’arresto del marito, il boss Tommaso Lo Presti.
È una Cosa nostra a trazione femminile quella svelata dall’operazione coordinata dai pm Sergio Demontis, Caterina Malagoli e Francesca Mazzocco, che ha portato all’arresto di 38 persone, tra Palermo e Bagheria. “Panta rei”, tutto scorre, è il nome in codice dell’operazione antimafia: come dire che anche dentro Cosa nostra le donne hanno ormai ottenuto la loro fetta di potere. In passato non erano mancati i casi simili: da Nunzia Graviano, sorella dei sanguinari boss di Brancaccio, a Maria Vitale, figlia del padrino di Partinico. Questa volta però l’intero clan era amministrato dalla moglie di Lo Presti, che dal carcere dispensava ordini e consigli. Nonostante fosse guidata da una donna, però, l’organizzazione criminale rimaneva spietata. Un esempio? Teresa Marino rimproverava le altre donne di Cosa nostra, ordinando loro di non piangere in pubblico, quando si recavano alle udienze dei processi dei mariti. “Dimostratevi mafiose dignitose, il dolore solo a casa”, diceva mentre era intercettata. “Stiamo parlando di una donna che ha cinque figli ed è anche nonna, ad oggi i figli sono affidati alla figlia maggiorenne”, ha sottolineato il colonnello Giuseppe De Riggi, comandante provinciale dei carabinieri di Palermo.
E quando una delle donne del clan si era rivolta direttamente al boss Di Giovanni per chiedere denaro, Teresa Marino l’aveva pesantemente rimproverata. “Tu non ti devi allargare, perché sei andata da mio cugino a chiedere soldi? Per ora siamo combinati male”, è un altro passaggio delle intercettazioni. Le gerarchie della famiglia andavano seguite rigidamente. E d’altra parte Teresa passava il tempo ad amministrare i fondi, pensando soprattutto alle famiglie dei detenuti. “Ho visto il conto, ci sono rimasti quindicimila euro, la prossima settimana ci sono altri duemila e cinque, quella ha bisogno che ha una bambina, ma per ora siamo messi male”, si lamentava mentre le microspie dei carabinieri registravano ogni parola. Per finanziare le proprie spese Cosa nostra non ha cambiato settori d’interesse: stupefacenti, estorsioni e appalti. Gli investigatori hanno documentato come il clan di Porta nuova avesse aperto un nuovo canale in Argentina per importare cocaina. “È la prima volta che leggiamo un contatto diretto con l’estero mentre in passato Cosa nostra non lo faceva: questo contatto presuppone un livello organizzativo diverso”, spiegano gli inquirenti.
Nella droga finivano investiti tutti o quasi i capitali che arrivavano delle altre attività di Cosa nostra. Prima tra tutte la tela del pizzo, il racket che a Palermo rimane capillare. L’ultima operazione contro Cosa nostra ha ricostruito ventisette casi di estorsione. Tra gli imprenditori che hanno denunciato i boss c’è anche Gabriel Gherarescu, trentenne rumeno a Palermo da 14 anni, titolare di una piccola impresa edile. Stava eseguendo lavori nel quartiere del Capo, quando ha ricevuto una richiesta precisa: il tre percento di pizzo in cambio della messa apposto. Inedito è invece un nuovo settore che Cosa nostra ha deciso di gestire in esclusiva: quello dei frutti di mare. Il clan aveva messo le mani sulla vendita all’ingrosso dei prelibati prodotti ittici: agli altri venditori non era rimasta altra scelta che adeguarsi.