Questa settimana pubblichiamo un importante appello sottoscritto da numerosi avvocati del lavoro, giuristi ed altri sostenitori, contenente, tra l’altro, una proposta di modifica dell’art. 92 del codice di procedura civile; questa norma, per le ragioni illustrate nell’appello ed anche in precedenti interventi pubblicati in questo blog, penalizza fortemente l’accesso alla giustizia dei lavoratori, peraltro già fortemente penalizzati dal complesso di riforme del diritto sostanziale (Jobs Act) varate da questo governo. L’appello è stato presentato nel corso del convegno tenutosi ieri a Milano su “L’accesso alla giustizia dei soggetti svantaggiati” organizzato dalla Fondazione Malagugini. In considerazione dell’importanza e delicatezza del tema, nonché della necessità – per un paese che si dice civile e democratico – che la giustizia che sia realmente giusta, auspichiamo che vi sia la massima condivisione del documento e che il Parlamento e il Governo si facciano tempestivamente carico delle riforme qui proposte.
Avv. Tatiana Biagioni, Avv. Annalisa Rosiello
(curatrici di questo blog)
Appello alle istituzioni, agli organismi dell’avvocatura, della magistratura, della politica e della società civile
È trascorso un anno dall’entrata in vigore della modifica dell’art. 92 del codice di procedura civile che, al secondo comma, ora recita: “Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero”.
La disposizione – che consolida il principio per cui “chi perde paga” le spese legali anche dell’avvocato di controparte, limita a rari e specifici casi i poteri del giudice a disporre diversamente ed ha già ottenuto il prefissato e dichiarato effetto di abbattere il contenzioso e comunque di disincentivare il ricorso alla tutela giurisdizionale, con esiti, però, devastanti per la giustizia civile in generale (si pensi ad esempio alle cause dei consumatori) e per la giustizia del lavoro.
La norma nel precedente testo – che già aveva subìto, nel corso degli ultimi cinque anni, ulteriori modifiche – consentiva al giudice di compensare parzialmente o per intero le spese tra le parti laddove concorressero “altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione”.
A questa disposizione faceva frequentemente ricorso il giudice tutte le volte che la condanna alle spese della parte che aveva perso il processo apparisse iniqua. Da un anno a questa parte le persone, poste di fronte al rischio di dover pagare migliaia di euro per l’ipotesi, ad esempio, in cui non riescano a provare in giudizio la fondatezza delle proprie ragioni, preferiscono rinunciare in partenza a far valere i loro diritti.
Nello specifico ambito del diritto del lavoro ciò ha comportato e comporta una grave penalizzazione di principi costituzionalmente garantiti, quali quelli dell’uguaglianza e dell’accesso alla giustizia (artt. 3 e 24 Cost), che si accompagna alle forti compressioni dei diritti intervenute negli ultimi anni. Si è quindi ormai totalmente squilibrata e resa inefficace la funzione primaria del diritto del lavoro, inteso come complesso di norme poste a tutela della parte economicamente più esposta del rapporto di lavoro e come garanzia di un sostanziale riequilibrio tra i diritti e i doveri delle parti.
Si consideri, a tale proposito, che nel contratto di lavoro (a differenza che in altri contratti di diritto civile in cui i contraenti si trovano in posizione di parità), ad una delle parti vengono attribuiti poteri unilaterali (disciplinari, organizzativi, di risoluzione del rapporto) che, in astratto, possono essere esercitati arbitrariamente: a fronte di ciò all’altra parte non resta che rivolgersi, spesso “al buio” (ovvero senza conoscere in profondità gli elementi in mano all’impresa) ad un terzo imparziale – per l’appunto il giudice – che abbia i poteri di ripristinare la giustizia.
Non occorre un lungo argomentare per evidenziare l’iniquità di disposizioni che volutamente ostacolano tale possibilità.
Un’ultima assurdità: nel processo il quadro di diseguaglianza – sostanziale ma anche e persino formale – risulta completato dal fatto che gli imprenditori hanno la possibilità di “scaricare” i costi legali della propria difesa processuale e dell’eventuale soccombenza; la parte economicamente, sostanzialmente e processualmente più esposta, ovvero sempre il lavoratore, non ha alcuna possibilità di “scaricare” alcun costo, aggravando il rischio in cui incorre il proprio nucleo familiare e pagando, a parità di importi, circa il doppio rispetto all’impresa. Siamo di fronte quindi al paradosso di un trattamento di sfavore nei confronti della parte più debole! Anche di questo aspetto il legislatore – perseguendo una volontà di abbattimento del contenzioso purchessia e, quindi, dimentico dei diritti così lesi – non si cura affatto.
Una giustizia che rende eccessivamente onerosa la possibilità di tutela processuale dei diritti non può ritenersi tale; per questa ragione molti avvocati giuslavoristi che tutelano i lavoratori inseriranno negli atti introduttivi dei giudizi specifiche eccezioni di incostituzionalità della norma.
A ciò si aggiunga che le disposizioni sul contributo unificato nelle controversie di lavoro (una “tassa” che si versa all’inizio di un processo proporzionata al valore della domanda, dalla quale sono esenti solo coloro che abbiano avuto un reddito familiare inferiore, ad oggi, a € 34.500 circa) necessitano, quantomeno, di una “messa a punto”, avendo rivelato aspetti di iniquità.
– Innanzitutto non è dato comprendere perché il riferimento debba essere al reddito familiare anziché a quello personale.
– In secondo luogo è ingiusto il riferimento al reddito dell’anno precedente: per un lavoratore licenziato, ad esempio, che ha perso ogni fonte di reddito appare una vera beffa misurare le sue capacità economiche in rapporto a quelle che aveva quando lavorava! Analogo discorso vale per chi si trova a dovere recuperare retribuzioni arretrate di mesi e mesi e le competenze di fine rapporto (Tfr compreso) da un datore di lavoro insolvente. In base a quale logica si deve ritenere che quel lavoratore, nell’attualità, sia in condizioni di poter far fronte a spese solo perché l’anno precedente il suo reddito era più alto?
– È assurdo che il contributo unificato aumenti nei superiori gradi del giudizio, ed è inconcepibile che per il ricorso in cassazione, secondo l’interpretazione corrente, non vi sia esenzione in base al reddito ma che, per tutti, vi sia un elevatissimo contributo superiore ai 1000 euro. Le Alte Corti sono riservate solo agli alti redditi ?
Si propongono semplici e chiare modifiche della normativa vigente per l’eventualità in cui i magistrati ritengano di non poterla applicare in senso conforme al dettato costituzionale:
1. Sulla condanna alle spese
All’art. 92 c.p.c. aggiungere il seguente comma:
comma 2 bis: “Il giudice può altresì compensare le spese in ragione delle particolari condizioni di una delle parti o se ricorrono altre giuste ragioni esplicitamente indicate in motivazione. In ogni caso la parte soccombente non può essere condannata al pagamento delle spese e degli onorari se è risultata esente dal contributo unificato in ragione del reddito, salva l’ipotesi di cui all’art. 96 c.p.c.”.
2. Sul contributo unificato
Ove non si ritenga di poter eliminare del tutto il CU per il processo del lavoro, si ritiene che, quantomeno, l’esenzione dal pagamento del CU debba
– essere disposta avendo come riferimento il reddito personale e non quello familiare
– essere disposta sulla base dei redditi correnti al momento della causa (eventualmente con autocertificazione) e comunque, per i gradi successivi al primo, dell’ultima dichiarazione dei redditi, per ogni fase e grado del giudizio (e non riferita all’anno precedente la proposizione del primo grado)
– essere disposta sempre per materie particolari quali il licenziamento
– essere disposta anche per il ricorso in Cassazione
Per tutte queste ragioni riteniamo necessario ed urgente che il Consiglio Superiore della Magistratura, i Consigli dell’Ordine, il Consiglio Nazionale Forense, gli organismi e le associazioni tutte di rappresentanza dell’avvocatura, della magistratura, gli esponenti della politica e della società adottino ogni iniziativa volta ad approvare la modifica legislativa proposta o, quantomeno, arrivare al ripristino della precedente formulazione dell’art. 92 c.p.c. e ad una congrua rimodulazione e riduzione del contributo unificato nelle controversie di lavoro.