Cinema

Il ponte delle spie, Steven Spielberg racconta la storia di un avvocato novello Schindler

spirato a una delle numerose storie nascoste durante la Guerra Fredda, racconta dello scambio tra una spia sovietica e due cittadini americani organizzato nel 1957 a Berlino Est – sul Ponte di Glienicke - da un avvocato assicurativo di Brooklyn, interpretato da Tom Hanks

di Anna Maria Pasetti

Tutti hanno diritto a una difesa, ognuno di noi è importante. Non ci sono mai state diversità indifendibili nel cinema di Steven Spielberg, il cineasta sempre più vigile della memoria etica americana. Dopo Lincoln (2012) Il ponte delle spie si attesta come un’opera di straordinario valore, da ogni punto di vista. Ispirato a una delle numerose storie nascoste durante la Guerra Fredda, racconta dello scambio tra una spia sovietica e due cittadini americani organizzato nel 1957 a Berlino Est – sul Ponte di Glienicke – da un avvocato assicurativo di Brooklyn. Tal James Donovan, interpretato da un perfetto Tom Hanks, si improvvisa negoziatore per caso dentro al triangolo politico tra Usa, Urss e Ddr: Cia e Fbi lo scelgono per le sue abilità forensi ma lui supera le aspettative grazie a una coscienza civile ed osservanza costituzionale eccezionali. Già, perché la chiamano Costituzione, ed è ciò che ci rende americani, rammenta Donovan a chi vorrebbe viziare la sua difesa della spia nemica. In nome della Costituzione l’avvocato sceglie quindi di difendere con tutti i crismi (cioè coi suoi diritti) il cittadino sovietico Rudolf Abel (incarnato dal magnifico attore britannico Mark Rylance), trascurando l’invito a trasgredirli fortemente propostogli dalle istituzioni americane.

Il successo del pacificatore Donovan costituì un precedente, al punto che negli anni a venire persino il presidente J.F. Kennedy lo chiamò a negoziare con Cuba, salvando migliaia di prigionieri statunitensi. Gli ingredienti biografico/etici dell’avvocato di Brooklyn erano più che sufficienti per farlo apparire alla sensibilità civile di Spielberg come un novello Schindler, ovvero un uomo che mette al centro l’essere umano al di là di nazionalità, cultura, lingua e religione. Questo è esattamente il punto di interesse del cineasta: cogliere l’esemplarietà di una storia vera americana poco nota al mondo e metterne in evidenza la stringente attualità. Il dispositivo non è certamente nuovo: Spielberg l’ha già realizzato vigorosamente con Munich, Schindler’s List, Salvate il soldato Ryan e Lincoln, ma ora con Il ponte delle spie sembra addirittura superare la propria e(s)tetica artistica.

Il film appare come spogliato di ogni ridondanza per affinarsi nell’essenzialità di una parola/immagine che si fa gesto epico ed eroico. Se alla base della pellicola c’è la solidità di una sceneggiatura firmata dai fratelli Coen e dall’inglese Matt Charman, dentro ad essa vibra la lucidità profetica di un cineasta profondamente americano e profondamente universale con la rara capacità di esaltare i tratti migliori della retorica classica. Uscito ieri in Italia in alcune centinaia sale per la 20th Century Fox, Il ponte delle spie è stato incredibilmente trascurato nelle massime nomination ai Golden Globes con l’unica eccezione della candidatura come miglior attore non protagonista a Mark Rylance: la speranza è che l’Academy Award sappia valorizzare l’opera verso gli Oscar come giustamente merita.

 

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