Un nuovo spettro si aggira per l’Europa. Arriva da Londra e si chiama “Brexit” (dalla contrazione di British e di exit). Se ne parla da almeno due anni, ma ha preso forma giovedì 17 dicembre quando il Parlamento Britannico ha approvato la legge che permetterà al Primo Ministro di indire un referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Unione europea. Brexit inizia quindi a diventare una possibilità un po’ più’ concreta visto che il voto avrà effetto deliberativo, chiarendo una volta per tutte la complicatissima relazione tra i britannici e l’Ue.
I referendum in Uk sono abbastanza rari, ne sono stati indetti solo 12, e sempre su questioni costituzionali. Il primo quesito referendario posto all’intero Paese (quindi in Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord) è stato quello del 1975, quando si decise sull’adesione del Regno Unito alla CEE, la Comunità Economica Europea precorritrice dell’Unione Europea. La campagna fu agguerrita, il governo del laburista Harold Wilson si spaccò: metà gabinetto pro e metà contro. Per un sistema esecutivo incentrato su coesione politica e responsabilità collettiva del governo, quello fu un piccolo trauma costituzionale, difficile da scordare.
In quell’occasione il Sì vinse col 67% ma quell’ottimo margine non fu – evidentemente – abbastanza convincente. Sono bastate due generazioni per trasformare i britannici da guardinghi in scettici, e sopratutto renderli collettivamente estremamente sospettosi di un’ istituzione che faticano a capire e che forse hanno più spesso sopportato che supportato.
Annunciando l’approvazione della legge questo giovedì, il ministro per l’Europa David Lidington ha dichiarato con soddisfazione che “la popolazione Britannica avrà la possibilità di fare una scelta definitiva”. Il ministro per le Riforme Costituzionali John Penrose chiosa ricordando che con il passaggio della legge sul referendum Ue il governo ha mantenuto un’altra delle promesse fatte prima delle elezioni del Maggio scorso.
E quindi che si aprano le danze. Vote Leave, dicono gli euroscettici, perché la Gran Bretagna ha più in comune con il Canada che con la Francia. “Riformiamo – e subito – l’Europa, ma dal suo interno” – dice il gruppo pro Eu.“Rivendichiamo il diritto all’autodeterminazione”, dice la parte dell’ Out. “Sfruttiamo l’Unione per continuare a far crescere PIL e benessere” dice la parte dell’In. “Brexit costerebbe immediatamente alla Gran Bretagna 11 miliardi solo in termini di commercio europeo”. “No, farebbe risparmiare 1000 sterline pro capite ai Britannici”.
Ed è già tutto un carosello di speculazioni e statistiche, un fiorire di vecchi luoghi comuni e sofisticate analisi economiche. Fatti e percezioni che entrambe le parti cercheranno di usare per conquistare la testa e lo stomaco degli elettori, già profondamente divisi sulla questione.
[Credits: Lord Ashcroft’s Poll, Dicembre 2015]
La data di questo voto storico per il Regno Unito (ma anche per il resto dell’Ue, visto che un’eventuale uscita non ha precedenti), ancora non è stata decisa. Nei corridoi di Westminster i ben informati suggeriscono che il voto verrà chiamato presto perché l’incertezza fa malissimo alla borsa e il Primo Ministro non vuole trascinare una campagna che distrarrebbe dal programma di governo. I meglio informati sussurrano come Sibille, date di fine Giugno, inizio Luglio o di metà Settembre. Ma per ora sono tutti solo pettegolezzi.
Sarà il Primo Ministro a decidere, dopo aver chiuso i negoziati con l’Unione Europea e con gli altri leader degli stati membri. Il Regno Unito chiede garanzie che i paesi dell’Eurozona non prendano decisioni che possano influire direttamente sull’economia britannica e auspica un impegno collettivo a limitare burocrazia e regolamentazioni. Il governo vorrebbe affrancarsi dalla politica di integrazione europea e avere un maggiore potere di opzione su legislazioni future, e sopratutto spera di trovare un accordo per ridurre l’afflusso di migranti europei, magari creando delle deroghe al diritto alla libertà di circolazione e all’accesso al welfare.
Difficile prevedere quale sarà l’esito delle negoziazioni, che si stanno svolgendo a porte rigorosamente chiuse e con pochissime indiscrezioni. I leader europei accetteranno di fare delle eccezioni per il Regno Unito col rischio che poi altri Stati membri avanzino la stessa pretesa e vogliano anche loro un trattamento speciale? Oppure si rassegneranno a un potenziale Brexit seguito magari da un’epidemia di referendum e un sicuro tsunami destabilizzante per le istituzioni europee?
Per ora l’unica cosa certa è che il risultato delle negoziazioni avrà un impatto sulla scelta degli elettori, e soprattutto determinerà la posizione del governo che prende tempo, e dell’opposizione che per ora, nonostante preferenze individuali note, è estremamente cauta.
E soprattutto è ancora più difficile immaginare cosa ne sarebbe di una Gran Bretagna fuori dall’Ue e come reagirebbe l’Unione. Gli scenari tendono a spaziare, nelle conversazioni tra amici così come nei dibattiti tra esperti, dall’apocalittico all’idilliaco, con poche vie di mezzo. A fare previsioni più ragionate ci ha provato la giornalista Annalisa Piras con un interessante documentario, “The Great European Disaster Movie”, che già ha generato critiche, plauso, e in generale controversie notevoli.
Impossibile per ora anche solo provare a indovinare quale sarebbe la procedura di separazione e quali le implicazioni per gli emigrati europei o per gli accordi commerciali già in corso. Quello che invece ormai è legge è la composizione dell’elettorato. Ovviamente potranno votare al referendum i cittadini britannici residenti in Uk e quelli residenti all’estero da meno di 15 anni, ma anche i membri della Camera dei Lords e, in virtù di vecchi accordi bilaterali, avranno diritto al voto anche i residenti con cittadinanza Irlandese e di 52 Paesi del Commonwealth.
Ebbene sì, il futuro del Regno Unito, e dell’Europa, verrà deciso anche da cittadini giamaicani o neozelandesi, ma non dai milioni di cittadini Europei che vivono e lavorano in Uk.