Il muratore di Mapellio, imputato per l'omicidio della 13enne di Brembate, ha replicato a un testimone secondo cui il 40enne voleva suicidarsi a causa dei problemi con la moglie
“Non è vero, non è vero, mi state solo denigrando, sono tutte bugie su di me”. Finora aveva sempre mantenuto i nervi saldi. Mai un cenno di cedimento nonostante l’arresto, il carcere e l’accusa di aver rapito e ucciso la 13enne Yara Gambirasio. Oggi, però, nell’aula del tribunale di Bergamo, Massimo Bossetti si è alzato in piedi ed è sbottato quando un testimone ha raccontato al giudice che una volta il muratore di Mapello gli aveva detto che si voleva suicidare perché aveva problemi con la moglie Marita Comi.
Bossetti, in carcere dal 16 giugno 2014, ha perso la pazienza per la prima volta, mentre interveniva Panzeri, suo collega artigiano con azienda a Monte Marenzo (Lecco). A chiamarlo a testimoniare l’accusa, in merito all’atteggiamento che Bossetti aveva durante il suo lavoro. Ennio Panzeri ha raccontato che un giorno “Massimo aveva annunciato di volersi suicidare, perché aveva problemi con la moglie Marita”. E’ stato a quel punto che l’imputato si è alzato in piedi e ha sbottato, rivolgendosi alla Corte e a Panzeri.
Dopo lo sfogo, il giudice gli ha concesso la possibilità di intervenire. Bossetti ha preso la parola per smentire la ricostruzione dell’ex collega: “Non è vero che ho mai minacciato di uccidermi, non è affatto vero, non ho mai detto di essere stato in crisi, e soprattutto non ho mai detto niente…”. Ha poi spiegato che con Panzeri si erano incrinati i rapporti di lavoro e per questo l’ex collega gli aveva messo il soprannome di ‘favola‘.
Bossetti è intervenuto anche in merito alla discoteca ‘Sabbie Mobili‘, nei pressi della quale venne trovato il corpo di Yara il 26 febbraio 2011. “Ne esisteva già a Sotto il Monte con una precedente gestione, ma io frequentavo il Gabbiano di Chignolo”, ha precisato l’imputato. La Procura ha chiamato a testimoniare anche altre persone, tutti colleghi di lavoro che hanno riferito di atteggiamenti ‘strani’ dell’imputato sul luogo di lavoro.