Camilla Pivato, 31enne di Rimini, nel 2013 aveva deciso di partire. Si trasferisce in una farm di Shepparton, supera gli 88 giorni di lavoro richiesti, poi le viene offerto un contratto per rimanere nel paese. Tutto regolare fino a che l'avvocato che si fa carico del suo caso non trasmette la pratica all'ufficio immigrazione. E lei è costretta a tornare
Mettere radici dall’altra parte del mondo non è facile. Eppure Camilla Pivato, nata a Rimini 31 anni fa, c’era riuscita. Arrivata in Australia con un biglietto di ritorno, aveva poi deciso di buttarlo via: “In Italia la gente era arrabbiata, invece lì mi ha subito sorpreso la gentilezza delle persone e la loro propensione ad aiutarti”, racconta a ilfattoquotidiano.it. A dispetto delle premesse, però, questa non è una storia a lieto fine. O almeno, non ancora. Perché dopo due anni e mezzo di duro lavoro Camilla è stata costretta a fare le valigie e a tornare in Italia.
Ma partiamo dall’inizio. Nel 2013 decide di passare quattro mesi in Australia: “Ero in pausa forzata dal mio lavoro di assistente costumista, così mi sono detta: ‘Perché non provare?’”.
Più passano i giorni, più si fa forte la volontà di restare lì per tutta la vita. Così, una volta scaduto il visto vacanza-lavoro, Camilla si trasferisce a Shepparton, paesino dello stato Victoria: “C’erano più mucche, mele e pere che persone”, ricorda. Per ottenere il secondo anno di visto decide di mettersi a impacchettare frutta in una farm, come ha raccontato anche nel video-reportage “88 days nelle farm australiane”. “Non pensavo che mi sarebbe piaciuto, invece è stata un’esperienza incredibile”. Tanto da convincerla a restare anche una volta superati gli 88 giorni di lavoro necessari al rinnovo del visto. Dopo un anno in campagna, arriva la svolta. Il proprietario di una delle farm le offre uno sponsor, il contratto lavorativo che ti permettere di restare in Australia anche una volta superati i due anni di visto vacanza-lavoro concessi dal governo. “Ormai ero diventata parte della famiglia e quando hanno deciso di ampliare il business mi hanno dato l’incarico di manager delle risorse umane”, ricorda. Un’occasione importante perché, spiega, “a meno che tu non abbia una professione già riconosciuta come il medico o l’ingegnere, è molto difficile ottenere lo sponsor”.
La procedura da seguire non è semplice: “L’ufficio immigrazione vuole molte rassicurazioni – ammette -, per cui il tuo datore di lavoro deve dimostrare che non può fare a meno di te e garantirti uno stipendio e l’assicurazione sanitaria”. Una volta ottenuto il contratto lavorativo di quattro anni, Camilla mette la pratica di rinnovo del visto nelle mani di un avvocato regolarmente iscritto all’Omara, l’ufficio di registrazione degli agenti dell’immigrazione, firmando un assegno da 8mila dollari. La prassi è questa: lui avrebbe dovuto seguire il suo caso e trasmettere i documenti necessari all’attivazione dello sponsor all’ufficio immigrazione. Ma dopo poco tempo Camilla capisce di aver messo la sua pratica nelle mani sbagliate: “Le prime due settimane si negava al telefono – ricorda -, poi ha cominciato ad accampare scuse”.
Estenuata da questo atteggiamento, decide di prendere in mano la situazione. A quel punto, però, il visto era scaduto: “Quando ho chiamato l’ufficio immigrazione per denunciare la truffa di Allan mi hanno detto: ‘Sei tu a doverti auto-denunciare’”. È il 7 maggio 2015 e le autorità concedono a Camilla una settimana di tempo per presentare un biglietto di uscita dal continente e altre due per organizzare la sua partenza. Su di lei, inoltre, cade il pesantissimo divieto di mettere piede in Australia per i prossimi tre anni: “Mi è crollato il mondo addosso”, ammette. Durante gli ultimi giorni di permanenza Camilla trova un legale pronto a occuparsi del suo caso: “Mi ha tranquillizzato, spiegandomi che la truffa che avevo subito era talmente palese che qualunque giudice mi avrebbe dato ragione”, spiega. Infatti il Tribunale del Victoria ha già ordinato un totale risarcimento a suo favore. La pratica del rientro, però, è in mano all’ufficio immigrazione, che per il momento non ne vuole sapere: “Continuano a negarmi la possibilità di tornare, senza dare alcuna motivazione valida”, racconta.
E l’avvocato a cui si era affidata? “Al momento se ne sono perse le tracce e, nonostante le denunce a suo carico pare non sia stato sospeso”. Secondo lei, però, dietro a quest’atteggiamento dell’ufficio immigrazione c’è anche altro: “Conosco molti ragazzi che hanno avuto problemi con il visto, ti portano via i soldi e poi ti cacciano – racconta -, probabilmente l’Australia fatica a gestire questo enorme flusso migratorio”. Rientrata in Italia dopo tre anni, Camilla non riesce a trovare la sua dimensione: “La mia vita ormai era lì – ammette -, qui mi riesce difficile capire cosa vorrei essere”.