Che cos’è Natale? Oggigiorno soprattutto uno stress. Regali, corse per la città trasformata in un ingorgo di luminarie tra auto che hanno dimenticato il galateo del clacson, preparativi per pranzi interminabili e pesanti, non solo in termini di digestione del cibo, ma assai di frequente anche di “digestione” dei commensali. In tempi di cosiddetta crisi, poi, Natale è per molti anche un bilancio di povertà.
Eppure, è la festa di tutte le feste, perlomeno per chi ha radici occidentali e nella cultura occidentale è nato e cresciuto. Eppure, è la traduzione cristiana di una e molte feste pagane, zeppe di rimandi esoterici, anche nel presepe. Infine, è la festa dell’infanzia per eccellenza, fatta di storie e personaggi che popolano la psiche dei piccoli con aria magica. E guai a togliere ai nostri bimbi la credenza su Babbo Natale and co.
Significa privarli di un potenziale dell’inconscio che è lo stesso a cui anche da adulti potremo attingere per rinnovare la nostra creatività e riconnetterci al nostro nucleo più profondo. I sogni, così come le magie, e le fiabe, aiutano i piccoli a crescere. La psicologia evolutiva ci insegna che il bambino deve poter credere all’impossibile per essere poi in grado di affrontare i grossi temi della vita, compresa la morte, per essere un adulto che continuerà ad avere la capacità di credere in qualcosa, in se stesso, in un progetto.
Il detto attribuito ad Eraclito risuona: “che creda all’impossibile perché l’impossibile accada”. L’impossibile e l’irrazionale come bagaglio di creatività per il tempo buio, nella difficoltà, nella prova: da psichiatra e psicoterapeuta conosco bene il potere che l’immaginario ha di curarci e di guarirci. Uno degli alimenti dell’immaginario sono proprio le celebrazioni e i rituali.
Il rito è affare dell’inconscio, pesca in una profondità dell’umano che da sempre ci abita e mai smetterà di farlo. Del resto, lo dice persino la fisica quantistica che siamo figli delle stelle: i nostri atomi, quelli di cui sono fatte le nostre molecole, che poi le nostre cellule utilizzano, sono polvere di astri, compresa pure la stella cometa che si mette in cima all’albero di Natale.
Dobbiamo ricordare che noi umani ragioniamo per simboli e ci comportiamo per archetipi: così un gesto non è solo un gesto, è una forma-gesto e pensiero non è solo un pensiero è una forma-pensiero, nel senso che tanto il gesto quanto il pensiero modificano la realtà e la creano. È questo che dovremmo sapere ricordare e attuare, senza buonismi fin troppo facili quando si tratta di Natale.
Prendiamo l’esempio del portare il pranzo di Natale agli homeless, esperienza che conosco personalmente, come del resto conosco personalmente anche l’esperienza opposta del mega pranzo in ghingheri nell’hotel di lusso, e pure il vecchio adagio del “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi”: prendiamo, dicevo, l’esempio del pranzo con gli homeless. Non crediate di andare davvero a pranzo con loro: voi andate a pranzo con voi stessi, con la parte di voi che sentite homeless dentro di voi, con le vostre fantasie e paure.
Voi andate a trovare qualcuno che siete voi, nella dimensione opposta a ciò che sembrate, nel vostro inconscio appunto. Così quando accettate più o meno di buon grado di partecipare a qualche celebrazione, ciò che state facendo è cogliere l’occasione di ricongiungervi con l’infanzia che celebra. Per superare lo stress del Natale, ci vuole la prospettiva simbolica, invece che la voglia di sentirsi i migliori anche a Natale, quelli che hanno azzeccato il regalo giusto, quelli capaci di stupire, quelli sempre in grado di non deludere le aspettative altrui, di non sfigurare.
Il regalo ci intrappola quando diviene un oggetto attraverso cui ci sentiamo misurati, analizzati, valutati. Il regalo è invece un simbolo se lo facciamo solo se e a chi desideriamo farlo e nella forma che vogliamo noi, allora è un inno alla libertà di avere ancora voglia di celebrare qualcosa, come i bambini, capaci di giocare anche in mezzo ad un campo profughi e di trasformare la realtà.
Uscire vivi dal Natale allora non nel senso di sopravvivere al Natale, uscire vivi nel senso letterale della parola, e siamo vivi quando possiamo essere connessi a ciò che veramente siamo, esseri simbolici, cioè sempre tesi come un ponte su due mondi, quello delle cose e della materia e quello dell’Anima, o dello spirito o del trascendente o, come si usa dire nei filoni che si ispirano alle neuroscienze, del superconscio. Anche il Natale, come ogni cosa, dipende dal livello di coscienza in cui decidiamo di stare.
Buon Natale a tutti i lettori del Fatto Quotidiano.