Con oltre cinque milioni di voti corrispondenti a poco più del 20% dei suffragi, Podemos può rivendicare a buon diritto di essere la vincitrice morale di questa tornata elettorale. Fondata meno di due anni fa in vista delle elezioni europee, ha infatti quadruplicato i propri voti collocandosi a ridosso del Partito Socialista. Data per spacciata nei mesi scorsi a seguito di un tracollo nei sondaggi, Podemos è la formazione che, tra i nuovi outsider europei invisi all’establishment, è balzata così in alto, così presto. Persino i progetti di Tsipras e Grillo hanno avuto periodi di gestazione più lunghi.
La Spagna ha visto, con queste elezioni, la fine del bipartitismo. Spezzare l’oligopolio politico instaurato dal regime post-franchista era uno degli obiettivi dichiarati di Podemos. Ma il nuovo Parlamento si presenta più che mai frastagliato. Oltre a Podemos, infatti, entrano anche Ciudadanos, considerato il suo alter ego di centrodestra, pompato dai media attraverso sondaggi rivelatisi poi ritoccati al rialzo, e una sfilza di sigle, per lo più di natura territoriale. Questo scenario all’italiana può essere letale per Podemos: deve evitare la Scilla del paludismo parlamentare così come il Cariddi dell’oltranzismo. L’elettore medio di sinistra aspira, innanzitutto, a vedere i popolari di Rajoy uscire dai giochi. Quelli più esigenti pretendono invece che le promesse elettorali di alterità al sistema non vengano tradite.
Un ‘favore’ potrebbe arrivare dai socialisti qualora decidessero di formare una Große Koalition, così come invocato persino da alcuni editorialisti de El País e, più scontatamente, dal mondo finanziario. Ma pare che Pedro Sánchez, il segretario socialista, sappia perfettamente che vorrebbe dire avviare il suo partito a un processo di ‘Pasokizzazione’. Altrettanto ardua è la replica dell’ampia alleanza progressista recentemente forgiata in Portogallo: in Spagna infatti, l’eterogeneità tra i soggetti da articolare è ben più vistosa. A pesare è soprattutto l’inderogabile proposta di Podemos di organizzare un referendum sull’indipendenza catalana: uno scoglio per i socialisti, la cui politica territoriale non dista molto da quella dei popolari. Il panorama, per ora, resta quindi molto incerto e sullo sfondo c’è la possibilità di una nuova chiamata alle urne ove non emergesse una geometria in grado di sostenere un governo.
Tornando a Podemos, vale la pena analizzare gli elementi fondamentali che hanno contribuito al suo exploit. Pur provenendo dalla sinistra radicale, il partito di Iglesias ha presentato un programma socialdemocratico tutt’altro che utopistico, evitando accuratamente sin dagli esordi di impiegare pratiche e linguaggi privi di seduzione. Qui, il contrasto con l’Italia è nettissimo: da noi si susseguono futili trattative politicistiche per la costruzione di un soggetto unitario, insieme ad appelli più o meno avveniristici. Il problema è che vengono riproposti ad nauseam gli stessi discorsi, le stesse coordinate, persino le stesse parole. I giovani, poi, evitano accuratamente di ‘ammazzare’ i propri padri (a differenza di quanto fatto da Iglesias & co., come, per esempio, in questa rivelatrice intervista), perpetuando così la propria marginalità.
Di contro, Podemos non ha esitato a giocare carte piuttosto ardite, tanto nel lessico, quanto nelle proposte, come il riconoscimento del carattere plurinazionale del paese, che contempla una rinegoziazione dei termini di convivenza tra le diverse nazionalità, passando però per una decisione libera e consapevole (il referendum catalano appunto). Parimenti, ha presentato una serie di riforme costituzionali, segnale che ad entusiasmare possono essere solo le lotte di attacco e mai quelle di difesa di un passato ormai privo di attrattiva. Ma ancora più fondalmentalmente ha adottato una dicotomia polarizzante: quella tra le élite politico-economiche e la gente comune (si noti qui la cruciale differenza con i 5 Stelle, dove le élite continuano a essere principalmente quelle politiche). Si tratta di una semplificazione del linguaggio che interpella soggetti provenienti da percorsi diversi e che cerca di costruire un nuovo popolo intorno al ripudio di un sistema politico ed economico ingiusto.
Altri due elementi caratterizzano l’esperienza di Podemos. A un’estetica disruptiva fa da contraltare una dimestichezza singolare con la teoria, la riflessione filosofica e sociologica, il discorso colto. D’altronde, gli iniziatori dell’esperienza di Podemos sono un gruppo di accademici coinvolti da molto tempo nella militanza politica. In questo senso, teoria e pratica sono fuse in un gruppo dirigente che condensa una ricchezza unica di esperienze (come quella, imprescindibile, di molti di loro in qualità di consulenti presso i governi populisti dell’America Latina) e di dibattito politico: un vero e proprio intellettuale collettivo con le carte in regola per il ruolo contro-egemonico che si è prefissato. E poi c’è l’eredità degli Indignados del 2011: un movimento di cui Podemos non è discendente diretto, ma che ha contribuito a creare un nuovo senso comune gettando luce sulla rapacità dei potentati politici ed economici, e che solo il partito viola è stato in grado di intercettare e mettere a frutto.
In tal senso, la sfida di Podemos è quella di mantenere viva la tensione produttiva tra i due momenti che hanno contraddistinto la sua pratica politica: l’atto di fondazione soggettivo, l’aspetto leninista, “la macchina da guerra elettorale“, e quello democratico radicale, la connessione con i movimenti sociali, il lavoro dal basso. Il cruciale contributo della neo-sindaca di Barcellona Ada Colau nella campagna elettorale ha riportato un po’ del secondo elemento, a lungo trascurato a favore del primo. Nel medio-lungo periodo, entrambi saranno necessari non solo per forgiare un nuovo discorso emancipatore, ma anche ad assicurare le sue condizioni di possibilità e riproduzione.