In Italia è ancora vista come una stranezza, ma in altri paesi è una modalità diffusa. Il racconto di Emma e Bianca dall'Olanda: "Scegliamo prodotti integri, invenduti solo perché l'involucro è rovinato. E ci sono negozi che offrono a metà prezzo prodotti in scadenza. Ma non è né una moda, né un movimento di controcultura"
Frugano nei cassonetti dei supermercati alla ricerca di frutta e verdura ancora buona, scartata per un difetto nella confezione o perché in vetrina da troppo tempo. Chiedono alla bancarella del mercato se posso ritirare l’invenduto della giornata. E’ la spesa freegan, neologismo che nasce dall’unione di free, gratis, e di vegan, vegano. Si tratta di una pratica che, nella maggioranza dei casi, mette insieme la coscienza ambientalista anti-spreco e il vantaggio di risparmiare sulla spesa per il cibo. E chi ha intrapreso questa strada assicura che se, nel nostro Paese la scelta freegan è ancora vista come una stranezza, in altre nazioni europee è comune e diffusa.
“A Venezia, quando le vecchiette ci vedevano frugare nel pattume si spaventavano. Poi offrivamo loro un pacchetto di zucchero, del tutto integro, e ci ringraziavano”. Emma Panini e Bianca Zuenelli, 22 anni, sono freegan. Prima abitavano nel capoluogo veneto, ora Emma studia design di spazi all’accademia di arte e design di Rotterdam, Bianca frequenta il corso di danza contemporanea al conservatorio di Anversa. “I freegan vivono degli scarti della grande distribuzione – spiegano le ragazze – Vanno di nascosto a cercare alimenti buoni nei cassonetti dei supermercati. Oppure chiedono a mercati e ristoranti se, a fine giornata, possono ritirare l’invenduto. A volte sono gli stessi negozianti a portarti le eccedenze, perché sono i primi a non volere sprecare“. Ma ci sono rischi per la salute? “No, perché scegliamo i prodotti ancora chiusi nella confezione, ancora perfettamente buoni, ma che sono stati scartati perché magari l’involucro era rovinato”.
Il punto di partenza della filosofia freegan è la coscienza ambientale. E in particolare la consapevolezza della gravità dello spreco alimentare. Secondo un rapporto Fao, ogni anni si buttano 1,3 miliardi di tonnellate di cibo buono. Per la produzione di questi alimenti, si immettono nell’atmosfera 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra, si consumano 250 chilometri cubi di acqua e 1,4 miliardi di ettari di terreno. E una quota importante dello spreco arriva proprio dalla grande distribuzione: l’azione freegan intende recuperare parte di questo cibo buttato. Ma accanto all’aspetto ambientale, c’è anche quello economico. “Quando abitavamo insieme, risparmiavamo circa 50 euro di spesa alla settimana – spiegano le giovani – Andavamo a cercare cibo tra gli scarti dei supermercati, poi raccoglievamo quello che ci lasciava il fruttivendolo. E ci facevamo la scorta per tutta la settimana”.
Ora Emma e Bianca abitano nel Nord Europa e possono confrontare la realtà italiana con l’estero. “In Olanda la spesa freegan è una pratica più sdoganata rispetto all’Italia, una cosa normale – racconta Emma – Qui abbiamo organizzato un pranzo in una grande piazza di Rotterdam con gli scarti del mercato. Ed esiste anche un negozio che vende, a metà prezzo, solo prodotti in scadenza”. E Bianca conferma: “E’ vero, in Nord Europa sono più organizzati. Ma d’altra parte, in Italia è più facile stringere rapporti umani, per esempio trovare il fruttivendolo che ti lascia l’invenduto a fine giornata”.
Quello che dà fastidio alle ragazze è la rappresentazione che dall’esterno spesso si fa del mondo freegan. “E’ sbagliato chiamarlo ‘movimento’ perché non è una questione di appartenenza ad un gruppo – spiega Emma – ma è semplicemente un modo normale di fare la spesa. I freegan non sono ragazzi dalle strane abitudini alimentari. Non si tratta di moda, non è controcultura. E’ solo un’abitudine: quella di non sprecare, che dovrebbe essere normale e scontata, e non qualcosa di eccezionale”.