MODENA – Se nella stessa giornata ti trovi davanti un testo antico, rimesso in discussione e ribaltato, sforato e sfondato e sfrondato da orpelli, che ritrova la sua colonna portante e scheletro vitale scevro da inutili origami di contorno, e una nuova drammaturgia senza la terza dimensione della profondità, deficitaria di quel piglio utile alla riflessione, mancante di quella linfa di pensiero, allora tutto il confronto sul vecchio e il nuovo, sull’arcaico e sul moderno non trova residenza, non ha appigli, non può concedere ulteriori deroghe. Assistere, a poche ore di distanza, e a poche centinaia di metri, a Modena, passando dallo Storchi alle Passioni, a questo scarto e corto circuito ci fa capire in un attimo lampante quanto la millenaria “Fedra” abbia ancora da dire e raccontare e quanto, al contrario, operazioni come “Soap Opera” siano deboli strutturalmente non centrando il focus, deviando su facili intuizioni, per carità né dolose né dolorose, cercando stimoli di superficie.
Iniziamo dal dire che Andrea De Rosa è secondo noi sottovalutato. Applaudimmo i suoi “Elettra” e “Molly Sweeney”, tutti giocati sui sensi, o sulla loro assenza, siamo rimasti recentemente delusi dal “Falstaff” dalla scenografia imponente e gonfia. Questo “Fedra” è contemporaneo, attualissimo, scarno, con pochi dettagli strumentali usati, nei quali la scena prende corpo e vita, dai quali tutto si amplifica nella più completa pulizia di segni. Cinque interpreti in perfetto equilibrio, una scatola-cubo centrale in plexiglass trasparente, stazioni microfonanti che rimandano suoni ancestrali dell’anima, fanno rimbalzare i miscugli interiori nei cambi di status dei protagonisti. Un Dio, fuori dal cubo, sul proscenio, sigaretta in bocca e completo rosso di velluto, che si prende gioco degli umani, gioca a scacchi con loro, li sposta, li soverchia da gran burattinaio e se ne sta lì a godersi la scena, lo sviluppo delle sue azioni a valanga, a slavina, come un domino verso la distruzione.
Il Dio, che sia essenza o reale agente, ammonisce gli uomini di prendersi le responsabilità delle proprie azioni (in questi momenti dove siamo ripiombati in pseudo guerre religiose) senza dar colpa sempre a ingredienti celesti, divini, stellati, ultraterreni. Afrodite (Laura Coppola efficace d’ironia e perfidia), per vendetta, spinge Fedra (Laura Marinoni – Lupa verghiana, decisa senza patetismi) tra le braccia del figliastro Ippolito (Lolita al maschile), figlio di Teseo (Luca Lazzareschi, cappotto di pelle alla Matrix), in quel momento agli Inferi. Ippolito (il “predestinato” Fabrizio Falco, fresco Premio Ubu under 35, carnale, anche nella frammentazione così realistica del proprio manichino) respinge Fedra ma questa, accecata dall’ossessione-passione per il ragazzo, lo accusa, davanti al marito rientrato nel mondo dei vivi, di averla stuprata. L’ira del padre si scaglia sul figlio, innocente, generando altra morte, altro dolore. Certo gli uomini sono piccole pedine, però hanno dalla loro parte sempre la possibilità del libero arbitrio (Tamara Balducci convincente, una sorta di coscienza), della scelta, se farsi trascinare dagli eventi oppure se pazientare, far raffreddare le situazioni. Un Dio da Antico Testamento che ruota attorno al cubo kantorianamente come squalo sulla preda, scruta lo spazio angusto e claustrofobico in cerca di soddisfazione, giocando sulla prevedibile stupidità umana.
In “Soap Opera” (produzione Ert e Stabile di Bolzano) alberga di fondo il grande abbaglio e fraintendimento; se da una parte si punta sul far emergere il passaggio di consegne, generazionale ma soprattutto di genere, del potere, dall’uomo alla donna, dal machismo alla matriarca, dal maschilismo alla femmina, dalla vis/vir alla mantide religiosa, il risultato è più che altro una serie di incroci-riflessi di spicciolo citazionismo che un po’ fa sorridere e un po’ fa storcere la bocca. In una camera da letto, all’indomani della morte del potente marito, la first lady architetta, assieme alla forza oscura della badante (titolo di un recente testo dello stesso autore, Cesare Lievi; l’impostazione scenica era pressoché la stessa), come far accettare e digerire il cambio della guardia e il conseguente e naturale, secondo lei, tracimare del potere del defunto nelle mani della congiunta, come per spirito di affinità, eredità, devozione divina. La presidentessa (lasciamo perdere Schwab) – Galatea Ranzi (musa di Ronconi, “La Grande Bellezza”) è fredda, algida, piatta in un suo snocciolare casistiche di tocchi di autorità civettuola, consumistica e pop.
A tratti è Jacqueline Kennedy divenuta Onassis, non è certo la Merkel o la Thatcher che non hanno avuto apparentamenti di letto, è molto Evita Peron (scadente il ricorso negli intermezzi ad un’armonia rallentata di Madonna, che al cinema fu proprio la bionda di Buenos Aires), a vampate appaiono anche Berlusconi, “la discesa in campo”, Bossi, “la canottiera”, o Craxi, o altri piccoli potentati restati in sella per esigui battiti di ciglia dell’umanità, bagliori di Yoko Ono o Marina Ripa di Meana, in un frullato talmente pieno da risultare insapore, molto è Hillary Clinton, che dopo la fellatio e i sigari nella stanza ovale, Bill è come se fosse deceduto, almeno politicamente. Certamente non è Agnese Renzi, perennemente nelle retrovie, attenta a non far ombra.
La presidentessa, che in una sorta di transfer-sogno-rievocazione degli spiriti, echeggia anche con la sé giovane (Sara Putignano che limita le perdite e cerca di tappare le falle), quando tutto aveva inizio, e con la sé bambina-Shirley Temple, è il risultato e la creazione della balia anziana (un po’ di sostanza, finalmente, arriva da Dorotea Aslanidis, ci ha ricordato Barbara Valmorin in “La porta” nell’adattamento di Stefano Massini dal romanzo di Magda Szabò), vera stratega, memoria storica, agenda e burattinaia, che tiene le fila del disgregato mosaico e insieme di luoghi comuni di sociologia politica banalizzata e di comunicazione di massa sbrigativa, fa da collante a un testo petulante e sottolineante, sciropposamente populista.