Duffy è un ispettore anomalo per i canoni degli anni ‘80 (i romanzi firmati Dan Kavanagh sono quattro e sono tutti usciti fra il 1980 e il 1987), una figura nuova nella storia del crime: fragile, sensibile, bisessuale («come scegliere fra uova al bacon e pomodoro al bacon»), impotente solo con la fidanzata, uno che risponde a monosillabi ma tutti straordinariamente ironici. Si muove agile nel suo territorio, che è la Londra di Soho, fra puttane, papponi e cinema a luci rosse, e non esita a usare mezzi illeciti per ottenere le informazioni che cerca, ma ha una sua profondità, perfino una sua tragicità. E soprattutto ha dietro la scrittura stupenda di Barnes, fortunato lui.
Uno capisce che dietro uno pseudonimo c’è una grande autore dalle descrizioni. Come nel caso di John Banville che scrive gialli firmandosi Benjamin Black (tutti editi da Guanda, l’ultimo è False piste). Uno più bello dell’altro, perché Banville è Banville e non importa la storia che ti racconta. Lui sceglie la struttura del giallo classico. Ma appena compare un paesaggio irlandese, si sente la mano dell’artista. I professionisti del genere spesso sono molto bravi a costruire strutture forti ma hanno una scrittura piatta, al servizio della trama (l’eleganza di Jo Nesbø fa eccezione, Jeffery Deaver invece è un tipico esempio di questa sciatteria, per non parlare della pessima Camilla Läckberg che mescola il cattivo gusto del rosa al noir, ma la lista è lunga). Qui è il contrario. La differenza esce nei ritratti, o nei gesti dei personaggi, gesti che solo uno scrittore del calibro di Banville sa cogliere e restituire.
In realtà questa tentazione di misurarsi con il mistery ce l’hanno avuta in molti. Gore Vidal negli anni ‘50 pubblica dei gialli con il nome di Edgar Box (Box erano una coppia di inglesi che facevano film e Edgar un omaggio a Poe: «Se dovevo fare la puttana tanto valeva seguire le orme di un maestro», dice). Tutto nasce per caso, come racconta in Palinsesto, durante un pranzo con Victor Weybright, l’inventore della New American Library, i suoi tascabili vendono milioni di copie perché non tirare su qualche soldo.
Lo stesso ha fatto Joyce Carol Oates, che nel 1987 ha pubblicato thriller psicologici sotto il nome di Rosamond Smith, facendo infuriare il suo editore che non ne era a conoscenza («Avevo bisogno di fuggire dalla mia identità», spiega). Famoso è il flop di J.K. Rowling che firma un giallo come Robert Galbraith. Il richiamo del cuculo (Salani) non supera le 1500 copie ma appena il Sunday Times rivela che è stato scritto dalla mamma di Harry Potter, il romanzo vende 7 milioni di copie (in una mattina, dicono, mah). Ora è già una serie e a Londra è appena uscito il terzo volume, Career of Evil.
La stessa fortuna ha avuto la coppia di scrittori svedesi che si firma Lars Kepler. Lui, Alexander, era un drammaturgo e si occupava di Bergman, lei, Alexandra, scriveva romanzi storici, insegnava all’università e studiava Pessoa. Bel salto dai loro saggi a L’ipnotista, che ha venduto 5 milioni di copie. A loro lo pseudonimo serviva per non litigare, perché scrivere a quattro mani non è facile. Poi è comparso Lars, come un terzo incomodo, e i coniugi Ahndoril hanno trovato l’affiatamento. Cinque libri in cinque anni (tutti tradotti da Longanesi e tutti da classifica), il sesto, Il porto delle anime, è uscito adesso. Del resto, il lavoro di coppia ha un indimenticabile precedente: Ellery Queen, nato da due cugini, Frederic Dannay e Manfred Lee.
Poi c’è il processo inverso. Agatha Christie (che poi è lo pseudonimo di Agatha Miller) che per prendere aria dal giallo scrive romanzi d’amore facendosi chiamare Mary Westmacott. Oppure due grandissimi come Stephen King e Ruth Rendell che, senza uscire dal genere, hanno scelto di firmare alcuni romanzi con un altro nome. King ha creato Richard Bachman (9 romanzi) perché era un autore troppo prolifico e non poteva pubblicare due libri l’anno e Rendell si è inventata Barbara Vine (14 romanzi) per esplorare diversi filoni narrativi.
Fa solo un po’ rabbia sapere che gli scrittori, quando passano al giallo, ci mettono niente a finire un romanzo. Barnes dice di avere scritto Duffy in nove giorni, Gore Vidal racconta che gli sono serviti solo otto giorni per consegnare sette capitoli da diecimila parole l’uno, e Banville, il primo giorno in cui ha lavorato come Benjamin Black, sostiene di aver buttato giù più di quindicimila parole entro l’ora di pranzo. Ma sarà vero?