La monarchia del Golfo, che è tra i maggiori produttori ed esportatori, risente dei prezzi vicini ai minimi. E il re Salman corre ai ripari tagliando le spese per il 2016 e cercando nuove fonti di guadagno
Il crollo del prezzo del petrolio, sceso sotto i 37 dollari al barile contro i 56 dello scorso gennaio, affossa i conti dell’Arabia Saudita. Stando al bilancio 2015 presentato lunedì da re Salman, infatti, la monarchia del Golfo che è tra i maggiori produttori ed esportatori di oro nero chiuderà l’anno con un deficit di 367 miliardi di riyal, cioè 87 miliardi di dollari, che equivalgono a poco meno di 80 miliardi di euro. Si tratta di un record storico, pari al 15% del prodotto interno lordo. E il buco è stato determinato proprio dal calo delle entrate legate all’export di materie prime energetiche. L’Arabia Saudita esporta 7 milioni di barili di petrolio al giorno e le vendite rappresentano il 90% delle entrate fiscali e il 40% del pil.
Secondo quanto riportato dalla tv al-Arabiya Re Salman, salito al trono lo scorso gennaio, nei giorni scorsi è corso ai ripari annunciando che “il regno è pronto ad attuare programmi per diversificare le fonti di introito e ridurre la dipendenza dal petrolio come principale fonte di proventi”. Di conseguenza, stando agli auspici, nel 2016 punta a restringere la distanza tra entrate e uscite a 326 miliardi di riyial: in particolare il budget prevede una spesa di 840 miliardi di riyal, pari a 224 miliardi di dollari, il 14% in meno rispetto al 2015. Questo a fronte di 513 miliardi di ricavi. Il budget per le spese militari sarà invece di 213 miliardi di riyal: d’altronde la sicurezza e la “lotta al terrorismo” sono le priorità dichiarate del sovrano insieme allo “sviluppo”.
Il 4 dicembre si è riunito l’Opec, organizzazione che riunisce i principali Paesi esportatori, ma i rispettivi ministri del petrolio e dell’energia non sono riusciti a raggiungere un accordo sul taglio dei livelli di produzione, come invece speravano i mercati. L’organizzazione ha rinviato la decisione al 2 giugno 2016, mossa interpretata come un sostanziale addio alle quote.