Nell’ultima settimana si sono susseguiti due simili annunci da parte di multinazionali del cibo e della ristorazione: Nestlè ha scelto di abbandonare l’uso di uova da galline in gabbia entro il 2020 e in seguito alle pressioni di una nota associazione animalista americana anche Subway ha annunciato di passare nel 2025 all’utilizzo esclusivo di uova provenienti da allevamenti “a terra”. Se tutti conoscono Nestlè come il colosso della produzione alimentare, Subway con i suoi 32.000 punti vendita è invece la catena di ristoranti più grande del mondo. Per entrambe i tempi di implementazione completa di questa scelta sono lunghi, ma forse non potrebbe essere altrimenti, perché il mercato statunitense non è ancora pronto per rispondere a tale richiesta nelle quantità necessarie.
Sono infatti molte ormai le catene di fast-food, alimenti confezionati, ristoranti, supermercati e negozi che hanno fatto una simile scelta, abbandonando quella che viene definita “l’età della gabbia”, a favore di metodi di produzione considerati più umani per le galline. Per alcune aziende il passaggio è stato rapido o quasi immediato, ma per i giganti della produzione alimentare come Starbucks, Kellogs, Subway, Nestlè o come McDonald’s, che da solo acquista 2 miliardi di uova l’anno (quasi il 4% della produzione nazionale), un tempo tra i 5 e i 10 anni è necessario affinché l’offerta possa arrivare a soddisfare la richiesta.
In fondo siamo di fronte ad un cambiamento epocale, probabilmente più per il sistema produttivo stesso che per quanto riguarda il benessere degli animali, ma pur sempre qualcosa che va a sancire la fine di un’epoca. Lo standard a cui queste aziende decidono di aderire è uno standard che il sistema di produzione attuale non può garantire. Le scelte di queste aziende di fatto stanno scrivendo il futuro degli allevamenti. In questo caso parliamo di uova, ma impegni simili da parte dei giganti della produzione sono stati sottoscritti anche riguardo altre pratiche, come l’utilizzo delle terribili gabbie di contenzione per le scrofe.
Negli Stati Uniti la produzione di uova dovrà adeguarsi e l’allevamento a terra senza gabbie, che ora rappresenta solo l’8%, dovrà sicuramente diventare la maggioranza. E dietro la spinta propulsiva di queste aziende, e di tutte le altre che come è immaginabile seguiranno, si tratterà a breve non più solamente di maggioranza produttiva, ma di un consenso univoco anche da parte del pubblico, già in buona parte concorde sulla innegabile crudeltà di chiudere un animale a vita in una gabbia poco più grande del suo corpo. Non è difficile poi immaginare persino che tra qualche anno si parlerà anche di vietarle quelle gabbie.
Ma cosa significano davvero questi cambiamenti per gli animali, per i produttori e per i consumatori?
L’allevamento in gabbia (prima chiamato “in batteria” e adesso rinominato “con gabbie arricchite”) è composto da file di gabbie poste una sopra l’altra, fino a 7 piani di altezza. Lo spazio per ogni singolo animale non consente nemmeno di aprire comodamente le ali. Le gabbie sono tutto ciò che una gallina vede nella propria vita, da lì non si esce per due anni, fino al momento in cui, calata la produzione, tutte finiscono al macello.
Il processo selettivo e il destino finale accomuna dopotutto anche le galline da allevamento a terra. Anche qui dopo i circa due anni di produzione tutte vengono uccise, per cominciare un nuovo ciclo produttivo con nuove galline. Anche qui vengono selezionate appena nate e sbeccate con una lama rovente, per evitare che si facciano troppi danni con le violente aggressioni che l’affollamento crea. Anche qui i pulcini maschi, inutili sia alla produzione di uova che a quella di carne, vengono triturati vivi o gettati in bidoni o sacchi, a morire per soffocamento.
Ciò che cambia è in quei due anni di vita, in cui la gabbia non è larga poche decine di centimetri ma qualche centinaio di metri. Gli allevamenti a terra sono infatti dei grossi capannoni in cui si stende un tappeto di animali, a perdita d’occhio. Il sole e l’erba non li vedono, non facciamoci ingannare, e la calca è tanta, davvero tanta. Qui le galline semplicemente possono aprire le ali e non vivono con le zampe sempre su una grata di ferro.
In questo momento in Italia circa l’80% della produzione di uova proviene da gabbie. Parliamo di 39 milioni di galline coinvolte in questo tipo di produzione.
Per i produttori americani cosa cambia invece? Significa togliere le gabbie, riadattare i capannoni, cambiare processo lavorativo e produttivo. Significa ingenti investimenti sicuramente. Ma è il progresso della società e volenti o nolenti devono farci i conti. Tanto quanto è ormai sotto gli occhi di tutti la necessità di passare dall’uso di energie fossili a quelle rinnovabili. Si tratta di passaggi ad epoche diverse della società.
Ma c’è un altro fattore da prendere in considerazione in mezzo a tutto questo, qualcosa che sta accadendo e di cui da qui al 2025 vedremo altri effetti: i cittadini, in Usa come in Europa e in Italia, stanno diminuendo progressivamente il consumo di prodotti animali e utilizzando sempre più le alternative vegetali alla carne, al latte e anche ai prodotti solitamente a base di uova. Negli ultimi 6 anni, nonostante l’aumento della popolazione, gli americani hanno ridotto del 14% il consumo di pesci e del 10% il consumo di carni. Anche il settore uova sta vedendo un calo e teme seriamente la concorrenza delle alternative, come mostra chiaramente la mobilitazione contro una maionese vegetale che sta spopolando nei supermercati. Da alcuni sondaggi sembra che il 36% degli americani dimostri interesse verso una dieta non rigidamente vegetariana ma composta prevalentemente da alimenti vegetali, e le aziende (grazie anche ai finanziamenti di magnati illuminati e che sanno prevedere il futuro come Bill Gates, Zuckerberg e simili) propongono alternative sempre più gustose, più economiche e alla portata di tutti, sempre più facilmente reperibili. E così per il 2020 gli analisti di Market&Market prospettano per le alternative vegetali alla carne un mercato di più di 5 miliardi di dollari.
E non sarà forse quindi che in questo decennio molti allevatori invece di investire ingenti somme per modificare le proprie strutture investiranno invece per passare ad altro tipo di prodotti, seguendo questa tendenza al cambiamento di alimentazione? Dopotutto è il Nasdaq che sta invitando esplicitamente a non investire negli allevamenti, destinati a subire drastici crolli per motivi ambientali, rischi dovuti a malattie virali, motivi di salute dei consumatori e interesse verso il benessere animale.
Siamo in mezzo ad un rapido cambiamento di attitudine verso il cibo e verso gli animali. Risulta difficile fare previsioni di alcun genere, ma è evidente che l’epoca delle gabbie finirà quanto prima e che forse un giorno non troppo lontano finirà anche l’epoca stessa degli allevamenti intensivi. Sarà così che tra una piccola riforma, una scelta aziendale, una presa di coscienza etica e una crescente attenzione alla salute, milioni di animali vedranno ogni anno enormi benefici.
Nel frattempo ognuno di noi può già iniziare a fare la sua parte e le sue scelte, ogni volta che si siede a tavola.