INRI (ph photophilla027)

Ci sono luoghi dove è più difficile, più complicato fare teatro. Ma dove è più stimolante, dove sembra essere l’unica cosa possibile. In alcuni quartieri il seguire teatro, fare laboratori, è ancora di salvataggio, baluardo e miraggio che qualcosa possa davvero cambiare, che a qualcosa ci si possa aggrappare con forza. In alcune situazioni soltanto essere una porta aperta di colori e voci che si mischiano e si raccontano fa diventare punto di riferimento contro degrado e miseria, interiore e materiale. Sapere che esistono alcuni piccoli centri dove si può ascoltare, riempirsi gli occhi è salvezza, anche se i marciapiedi sono divelti, la macchine parcheggiate in terza fila, i clacson ruggiscono, i muri coperti di scritte, lo slalom tra escrementi canini, bandoni arrugginiti, il fatiscente che attanaglia, edifici abbandonati, l’intonaco mangiato dal tempo, cassonetti che vomitano sacchetti.

Il “Nostos” (in greco antico: viaggio) di Aversa era un garage, e ne porta ancora i segni, la curva che scende in discesa è come una bocca che si spalanca e accoglie. Sotto la spinta di tre trentenni svegli, Giovanni Granatina, attore e regista, Gina Oliva, costumista, e Dimitri Tetta, musicista, in uno spazio tutto nero di legno, intimo, raccolto, quest’anno organizzano la stagione “Approdi”, dove spunta anche Cesar Brie. La sala è costellata da tante piccole, delicate barchette di carta, come Ulisse, come cappelli da muratori, che sempre di costruire si tratta, che siano viaggi o fondamenta. Nostos dove il dopo-teatro significa mangiare pizza, mozzarelle e olive insieme a cementare, unire, saldare come formaggio caldo che fila, morsi di impasto, verde futuro.

La stagione è propizia per “Inri”, teatro danza, alla duecentesima replica, degli Zerogrammi, pugliesi da dieci anni attivi a Torino. Se l’anima, ci dice Inarritu, ne è composta da 21, gli Zero ci indicano la via di leggerezza, lievità, sospeso. Una grossa carica ironica fa da cornice ad un impianto di congegni e incastri e incroci, con salti poetici dove la logica lascia il posto all’immaginazione, a riferimenti culturali ben saldi nella nostra società cristiano cattolica, dove, in un flusso di immagini che appaiono come Epifanie, come figure del Mito a bussare al nostro quotidiano, emergono dal buio ancestrale (paiono Minotauri) divenendo quasi in rilievo, passaggi e mosse ci conducono dai due ladroni (Stefano Mazzotta ed Emanuele Sciannamea hanno grande fisicità flessibile al servizio di un’idea, nessun movimento fine a se stesso) processati accanto a Gesù a due bigotte luttuose fino al Cristo martirizzato in un vortice espanso, in una circumnavigazione, in un’andata e ritorno che chiude il cerchio.

Ceri da cimitero e lampadine che colano dall’alto e il rumore delle corde a ricordarci i legami, le strette, le punizioni, le costrizioni all’interno delle quali le due vedove, finalmente libere dal controllo repressivo dei congiunti, ora sottoterra, respirano sul filo della giocosità-sfida. Due anziane, (barbute senza essere en travestì, ricordano Caino e Abele) comari di pece che si fronteggiano, lottano tra lo spray al posto dell’incenso, il rosolio che tracannano voraci e un letto di ceci, danzano come linguaggio dei segni e complicità. La religione è un fatto culturale, blando e laico. Checché ne dica l’Isis.

Il Nest (Napoli Est ma anche nido in inglese; simbolo un gasometro) a San Giovanni a Teduccio, è stato fondato da caparbi attori, Giuseppe Miale di Mauro, Francesco di Leva, Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino e Andrea Vellotti, visti nelle versioni teatrali di “Gomorra” ed “Educazione Siberiana”, che prima hanno occupato la palestra di una scuola abbandonata per poi ridargli vita. Un cancello, un cortile dove campeggia uno Spiderman di spray, apre ad una stagione che vede Massini e Iaia Forte e Binasco. A gennaio partiranno i lavori per la costruzione di una foresteria e locali per la formazione. Qui impegno fa rima con il posizionarsi, reggere l’urto in questo caos che ha un suo ordine preciso, in questa Babele spumosa che è Napoli.

In una sorta di “Rumori fuori scena”, al pubblico è visibile il dietro le quinte dove gli attori si preparano al loro ingresso sul palcoscenico, il collettivo Principio Attivo ha messo mano all’ultimo atto de “I giganti della montagna” pirandelliani. Niente a che vedere con le criptiche suggestioni di Roberto Latini. Una patina polverosa di vintage, sapore dei “Sei personaggi”, arie d’opera e tango, valige da deportazione e clima angoscioso di sconfitta e perdita, partenza senza ritorno, atmosfera precaria, come qualsiasi lavoro artistico, e un generale senso di ostilità intorno. Da una parte la platea del teatro presa in ostaggio, come al Dubrovka moscovita, dall’altra, oltre il fondale, un pubblico cattivo, violento, volgare, offensivo, aggressivo, urla da Colosseo e strepiti da bar, pretende il suo divertimento, mangiando e bevendo, panem et circenses. La domanda è per chi oggi gli artisti fanno teatro se la maggior parte della società non cerca la riflessione.

La compagnia, che ci ha preso in ostaggio, è ostaggio essa stessa, chiusa ripassa la parte, intimorita s’affaccia per placare con l’arte l’arena inferocita, il branco che ulula e abbaia in preda alla trance collettiva. Ogni tentativo fallisce in quest’odore di dittatura: l’attrice esperta (Carla Guido, una voce strepitosa che basta dargli corda per far vibrare teatro e anima), la sciantosa, l’uomo con il basco, quello col cilindro, quello col colbacco (l’allunato e sempre sorprendente Dario Cadei), diretti da un mixerista (spassoso Leone Bartolo, intona un inno neomelodico trash in stile Sud Sound System) teatro nel teatro, gioco svelato, finzione scoperchiata. E’ una critica al sistema teatrale, al pubblico sempre più maleducato, “bestie che pensano solo alle noccioline”. La conclusione mesta e pessimista: “Siamo sogni che nessuno sogna più”. Il teatro serve ancora? Noi una risposta ce l’abbiamo. Cercate i teatri sotto i 100 posti dove l’attore lo guardi negli occhi, è lì che nasce il teatro. Cercateli, vi troverete.

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