Da come si mettono le cose pare sempre più probabile che la guerra all’Isis sarà solo il preludio di una carneficina più vasta e generalizzata dalla sponda sud del Mediterraneo al lontano Mar Arabico. I segni premonitori sono inequivocabili, a cominciare da un affollarsi di analisti intorno alle mappe di Siria e Iraq, dichiarati Stati defunti dall’ex ambasciatore americano all’Onu John Bolton. E anche se in via ufficiale nessun governo fa propria quella dichiarazione di morte, già comincia a circolare l’ipotesi di sezionare i cadaveri presunti con tecniche chirurgiche simili a quelle applicate al corpo moribondo della federazione jugoslava: smembrare sotto la parvenza di confederare, dividere il territorio secondo il criterio della maggioranza etnica…
Nell’Iraq centrale, tra il 2006 e il 2007 le milizie ammazzarono 50 mila persone per stabilire la linea di demarcazione tra zone sciite e zone sunnite. Se si considera che malgrado le pulizie etniche passate e in corso, vaste regioni della Siria e dell’Iraq rimangono ‘miste’, si capisce perché toccare i confini produrrebbe ecatombi. E non solo nelle terre sconvolte dall’Isis: per restare alle situazioni più esplosive, sono ormai evidenti gli appetiti che suscitano la Libia, ormai in pezzi e ricchissima di idrocarburi, e il West Bank, sempre più sospinto verso la rivolta di massa che nei piani dell’estrema destra israeliana offrirebbe il pretesto per spopolare e fagocitare i territori palestinesi.
Altrettanto evidente che l’Onu non è in grado di scongiurare queste prospettive apocalittiche. Nella sua ultima risoluzione (la 2254 del 18 dicembre) di fatto il Consiglio di sicurezza si dichiara incapace perfino di concordare un cessate-il-fuoco in Siria. Però prospetta libere elezioni (tra 18 mesi) e un negoziato nel quale si confida nell’impossibile: un regime che ha bombardato quartieri e fatto sparire migliaia nei centri di tortura dovrebbe scagliare le sue truppe unicamente contro l’Isis, la cui sopravvivenza però è l’unico motivo per il quale Assad può sperare di salvarsi nel ruolo di ‘male minore’.
Se la Siria pare ormai una grande carcassa da squartare in stati etnici e zone di influenza, il confinante Iraq non sembra avviato a una fine diversa. Come se avesse già cessato di esistere, all’inizio di dicembre Ankara ha mandato in Iraq 600 soldati e 25 tank senza neppure notificarlo a Baghdad. Ufficialmente gli invasori devono facilitare la liberazione di Mosul, in mano Isis. In realtà, se si mettesse mano ai confini Erdogan e i suoi battaglioni farebbero il possibile quanto meno per parcheggiarla sotto la sovranità della fazione curda amica.
Anche Renzi fa il condottiero, però renzianamente. Annuncia che manderà 450 soldati nell’area di Mosul, dove l’Agip conduceva prospezioni petrolifere già ottant’anni fa. Anche in questo caso l’iniziativa non è stata concordata con il governo di Baghdad, che protesta. Moqtada Sadr, capo di un’agguerrita milizia, minaccia: dobbiamo reagire con decisione a queste irruzioni, altrimenti per l’Iraq “sarà l’inizio della fine”. Allora Roma si corregge: “Ogni eventuale dispiegamento potrà avvenire d’intesa con il governo iracheno”. Abbiamo scherzato. Il passo falso non esclude che dietro contropartita in futuro Baghdad accetti una presenza militare italiana, come già ha accettato i bombardieri inglesi, francesi e tedeschi. Dovrebbero colpire l’Isis anche i russi, e invece lavorano alla nuova geografia. Martellano soprattutto gli insorti nemici di Assad che incombono sulla costa siriana, lì dove Mosca ha le basi militari nel Mediterraneo. Nella riconfigurazione del territorio su base etnica, la costa è avviata a diventare una ‘piccola Siria’ sotto protezione russa e iraniana, contrapposta ai due nuovi Stati filo-Usa immaginati dal neocon Bolton: il Kurdistan e un Sunnistan siriano-iracheno. Sempre nel nome della ‘guerra al terrorismo’ sauditi e iraniani combattono in Siria il loro scontro per procura.
Il risultato di tanto retropensare è una guerra paradossale, cinica, caotica. Per liberare le terre conquistate dall’Isis occorre una fanteria, ma i candidabili (guerriglie curde, resti dell’esercito siriano, tribù sunnite, reparti sciti iracheni) pretendono contropartite; queste ricompense possono essere garantite solo da un accordo neppure desiderato dai più: se l’Utile Idiota, il Califfo, fosse spazzato via subito, sarebbe più difficile mettere a profitto la partecipazione al grande gioco. Perciò non mentono i governi occidentali quando annunciano che ‘la guerra sarà lunga’. E la questione vera è: quanti Stati e quante popolazioni sparirebbero nei gorghi che il conflitto sta generando? Quanti uccisi, quanti deportati, per l’unico vantaggio delle milizie etniche e dei loro sponsor internazionali? Infine: c’è un’alternativa praticabile alla spartizione etnica? In Occidente c’è chi propone di cambiare le funzioni dello Stato invece che cambiare, dello Stato, i confini. Ma occorrerebbero audacia e immaginazione, qualità che non sono nelle corde della politica corrente, di sinistra o di destra, né in Europa né altrove.
da Il Fatto Quotidiano del 29 dicembre 2015