Con il rinvio della flessibilità in uscita, dal prossimo anno si dovranno pagare i contributi per più tempo in base alla legge Fornero che modifica anche l'importo delle prestazioni. Cosa prevede, invece, la legge di Stabilità? Pochi dettagli e il blocco dell'effetto della perequazione automatica che avrebbe costretto i pensionati a restituire circa 20 euro
Il 2016 dei pensionati italiani è tutt’altro che roseo. Sarebbe dovuto essere essere l’anno dell’ultima riforma delle pensioni, ma il governo Renzi già lo scorso ottobre ha deciso di far slittare la correzione di quella targata Monti. I pochi cambiamenti che sono stati disposti per “raddrizzare” i cambiamenti fatti dall’ex ministro Elsa Fornero sono tutti contenuti nella legge di Stabilità. Si tratta dell’anticipo al 2016 dell’incremento a 8mila euro della no tax area per gli over 75, vale a dire la soglia di reddito entro la quale non si paga più l’Irpef, della proroga (ma solo se ci saranno risorse disponibili) dell’opzione donna che consente alle lavoratrici di mettersi a riposo con 35 anni di contributi e 57 anni di età (58 per le libere professioniste) subendo però forti penalizzazioni sull’assegno maturato, della settima salvaguardia per 26.300 esodati (ma secondo il presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, ne servirebbe subito un’ottava per ricomprendere gli ultimi 20mila rimasti esclusi) e del part-time per i lavoratori over 63.
Inoltre, uno degli ultimi emendamenti inseriti nel testo ha evitato il conguaglio negativo per il prossimo anno, rimandando al 2017 l’effetto della perequazione automatica, vale a dire il meccanismo di rivalutazione che adegua le pensioni al costo della vita calcolato con l’indice dei prezzi al consumo rilevati dall’Istat. In pratica, i pensionati non si vedranno decurtare dalla mensilità di gennaio e febbraio 2016, come invece era previsto, circa 15 euro ogni mille di pensione. Non dovranno dunque restituire lo 0,1% che hanno incassato in più durante il 2015 a causa dello scostamento tra l’indicizzazione provvisoria stimata a fine 2014 (0,3%) e quella definitiva dell’anno in corso (0,2%), visto che l’inflazione reale è stata più bassa per colpa dell’economia che non cresce. Si evita così l’ennesima beffa del nuovo anno per i pensionati, che già a gennaio e febbraio 2015, sempre per effetto della perequazione negativa, hanno sborsato oltre 200 milioni di euro. Ma lo stop al taglio degli assegni non è un regalo di Natale: il prelievo sarà, infatti, recuperato nel 2017 quando l’inflazione dovrebbe tornare a crescere.
Sulla rivalutazione delle pensioni dell’anno prossimo, peraltro, si faranno ancora sentire gli effetti della sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il blocco triennale introdotto nel 2012-2013 per gli assegni superiori a tre volte il minimo. Mentre procederà ancora il complicato sistema di restituzione parziale delle rivalutazioni non riconosciute in passato, per altri due anni (fino al 2018) sarà prorogato il blocco della perequazione delle pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo. Piena indicizzazione all’inflazione, quindi, per gli assegni sino a tre volte il minimo, mentre ci sarà una rivalutazione al 95% per i trattamenti tra 3 e 4 volte il minimo, al 75% tra 4 e 5 volte, al 50% tra 5 e 6 volte e al 45% per gli assegni oltre le sei volte il minimo.
Novità che, tuttavia, mettono una pezza a questioni emergenziali piuttosto che tracciare un disegno organico di revisione della legge Fornero sollecitato da molti, compreso il presidente dell’Inps Tito Boeri. “Introdurre una flessibilità in uscita equivale a liberare posti di lavoro e fare largo ai giovani”, continuano a ripetere Cgil, Cisl e Uil, che hanno già annunciato uno sciopero generale se entro fine gennaio non arriveranno risposte precise dall’esecutivo.
Cosa accadrà, quindi, a tutti i pensionati con il rinvio della flessibilità in uscita? Dall’1 gennaio scatteranno sia l’aumento di 4 mesi per tutti legato alla speranza di vita che il “gradino” previsto dalla legge Fornero per la pensione di vecchiaia delle donne che potrebbero lavorare anche 22 mesi in più.
In pratica, con l’aumento dell’aspettativa di vita, gli uomini andranno in pensione di vecchiaia a 66 anni e sette mesi (66 anni e 3 mesi fino a fine 2015), mentre per la pensione anticipata saranno necessari 42 anni e 10 mesi di contributi (compreso l’incremento di 4 mesi della speranza di vita rispetto al 2015). Per le donne, invece, sarà possibile andare in pensione prima dell’età di vecchiaia solo in presenza di 41 anni e 10 mesi di contributi.
Per quanto riguarda, invece, la seconda novità, per le dipendenti del settore privato l’età di uscita per vecchiaia passerà dai 63 anni e 9 mesi del 2015 a 65 anni e 7 mesi (compreso l’innalzamento di 4 mesi dell’aspettativa di vita), mentre le autonome potranno prendere l’assegno solo dopo aver compito 66 anni e un mese. La classe di età più penalizzata è quella delle donne nate nel 1953, che si ritroveranno a rincorrere la pensione fino al 2020 (nel 2018, quando compiranno 65 anni e 7 mesi sarà scattato un nuovo scalino mentre nel 2019 ci sarà nuovo aumento della speranza di vita). Per le donne nate nel 1952 invece è prevista un’eccezione che consente a fronte di 20 anni di contributi l’uscita a 64 anni più l’aspettativa di vita.
A cosa è servito (e servirà) allungare l’età pensionabile con la riforma Fornero? A far calare un po’ i beneficiari (-400mila negli ultimi tre anni) facendo pagare all’Inps meno assegni. Peccato che, però, lo scorso anno la spesa previdenziale abbia superato il 17% del Pil italiano attestandosi a quattro miliardi di euro in un anno. Tutta colpa di poche e pesantissime pensioni che condizionano il sistema. In Italia ci sono, infatti, 13mila fortunati che incassano ogni mese un assegno sopra i 10mila euro, contro il 40,3% (ovvero 6,5 milioni di persone) che percepisce meno di mille euro al mese e un ulteriore 39,1% che ogni mese prende tra mille e duemila euro. Dati, questi, che emergono dal Casellario dei pensionati pubblicato sul sito Inps, che disegna uno scenario ancor più pauroso se si aggiunge la penalizzazione che hanno subito i neo-pensionati a causa dell’introduzione del nuovo calcolo contributivo (si tratta di un gap di 3.000 euro rispetto a chi è andato in pensione prima del 2014 e riceve un assegno conteggiato con il calcolo retributivo) e la dichiarazione bomba del presidente dell’Inps Boeri. Secondo il quale “nell’ipotesi di un tasso di crescita del Pil dell’1%, molti dei 35enni di oggi dovranno lavorare anche fino a 75 anni. E quando poi andranno in pensione, avranno prestazioni mediamente del 25% più basse”.
Infine un avviso tecnico: visto che il primo gennaio è venerdì, la prima pensione del 2016 sarà accreditata il 4 gennaio per i clienti delle Poste Italiane e il giorno dopo (5 gennaio) per chi ha il conto corrente in banca.