Tutti conoscono il suo Boléro, ma pochi sanno che quando George Gershwin gli chiese di dargli lezioni, lui rifiutò giustificandosi così: “Scriverebbe del pessimo Ravel e rischierebbe di perdere la magnifica spontaneità della sua linea melodica”.
Questo aneddoto su Maurice Ravel è solo uno dei molti raccolti da Stefano Bollani nella sua ultima fatica letteraria: Il monello, il guru, l’alchimista e altre storie di musicisti (Mondadori), scritto con la collaborazione di Alberto Riva.

Quarta serata del 63esimo Festival di Sanremo

Curioso, onnivoro, appassionato di tutto quanto sta sopra, sotto, intorno alla musica, a cominciare da chi la scrive e la interpreta, Bollani ha indagato sulla vita di alcuni dei suoi musicisti preferiti. E dopo Parliamo di musica, bestseller di due anni fa, prosegue il viaggio di condivisione con i suoi adoranti lettori-ascoltatori (Bollani è il primo pianista-jazz ad avere un fan-club: i “Bollati”) con i ritratti di tredici grandi della musica. Più uno (una?) con sorpresa finale.

Il monello del titolo non poteva che essere Louis Armstrong, “un orfanello molto sveglio che ha dovuto imparare in fretta come cavarsela” e che negli anni Venti, costretto dalla grande novità dell’epoca, il disco a 78 giri, a comprimere la durata delle sessioni, ha rivoluzionato il jazz riscrivendo le strutture e realizzando straordinari arrangiamenti ad hoc.
Il titolo di guru viene invece assegnato a un grande vecchio della musica brasiliana: João Gilberto, il “bahiano con gli occhiali e l’aspetto di un impiegato di banca” che ha reso immortali le canzoni di un altro grande brasiliano, Antônio Carlos Jobim, sussurrando con un filo di voce, invece di cantare con l’impostazione tenorile e stentorea che usava negli anni Cinquanta, e suonando “come se fosse caduto sulla terra con la chitarra in mano”.

Alto, dinoccolato, elegante nelle sue giacche di tweed con toppe ai gomiti che lo facevano apparire più un professore universitario che un pianista, Bill Evans è l’alchimista che nel suo personale crogiolo musicale fonde la musica colta con il jazz inventando un nuovo linguaggio: “Invece di fare accordi pieni (cioè minimo di tre note), spesso produceva dei bicordi, cioè accordi di due note. Li suonava con la mano sinistra e li usava ritmicamente, in modo da lasciare la destra libera di fare un assolo, di ‘cantare’”.

Nel pantheon bollaniano non poteva mancare Renato Carosone, dal quale il pianista rimase folgorato da bambino, al punto da inviargli un’audiocassetta con le esecuzioni di alcuni dei suoi brani (e Carosone rispose, invitandolo a farsi le ossa ascoltando il blues). Cresciuto musicalmente studiando pianoforte al Conservatorio e suonando per gli italiani in Eritrea, dove dirigeva un’orchestra di musicisti africani, Carosone “si lanciò anzitempo nella cosiddetta world music. Cantava napoletano fluttuando tra un ritmo afrocaraibico e un passaggio arabeggiante: ed eccoti servita Caravan petrole”. Ottimo musicista, geniale autore di gioiellini di pochissimi minuti (Tu vuo’ fa l’americano), irresistibile entertainer, Carosone, scrive Bollani, aveva una caratteristica unica, quella di “intendere molto seriamente la parodia”.

L’anarchico Frank Zappa, il disinvolto Gorni Kramer (ma lo sapevate che Gorni è il cognome e Kramer il nome?), l’apolide Astor Piazzolla, il padre di Galileo Galilei e la figlia (?) di un celebre fisico (!!!). E ancora: i Beatles, Francis Poulenc, Eric Satie, Nino Rota. C’è di che imparare e deliziarsi ascoltando Bollani, per una volta non in concerto ma dalle pagine del suo libro.

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