Il presidente considera la chiusura dell'istituto simbolo della "guerra al terrore" come un segno della propria eredità storica e punta a svuotarlo progressivamente, sino a quando il numero di detenuti appaia troppo esiguo per tenerlo aperto. Il piano: trasferire i detenuti meno significativi nei Paesi di origine o in Paesi terzi disponibili ad accoglierli; un’altra parte, fatta di prigionieri in attesa di processo negli Stati Uniti, verrebbe trasferita in carceri di massima sicurezza sul suolo americano
C’è una battaglia sotterranea in corso da mesi a Washington: quella intorno a Guantanamo. Barack Obama lascia la Casa Bianca nel gennaio 2017 e vuole lasciarla dopo aver finalmente chiuso la prigione. Era stata, quella della chiusura del carcere simbolo della “guerra al terrore”, una delle promesse fatte dal presidente subito dopo la sua elezione, nel 2008. Sette anni – e molti scontri e polemiche – dopo, il carcere è ancora aperto. Il presidente considera la sua chiusura parte integrante della propria eredità storica; i repubblicani enfatizzano i rischi e vogliono mantenere Guantanamo vivo e operante.
La discussione sulla prigione cubana si intreccia, in questi giorni, a quella sulla rinnovata minaccia terroristica. Dopo i fatti di Parigi e San Bernardino, l’allarme sicurezza è tornato a occupare buona parte del dibattito pubblico. Due giorni fa a Las Vegas, nell’ennesimo dibattito televisivo tra i candidati repubblicani alla presidenza, quello della sicurezza nazionale è stato il tema centrale. Rand Paul, Marco Rubio, Ted Cruz, Jeb Bush e Donald Trump si sono scontrati per due ore, ognuno rivendicando le proprie credenziali nella lotta al terrorismo e tutti attaccando Obama, giudicato troppo “debole e rinunciatario”, incapace di assicurare all’America rispetto e sicurezza.
E’ in questo contesto, fatto anche di rinnovati timori nell’opinione pubblica (di cui è testimonianza il falso allarme nelle scuole di Los Angeles, martedì), che si colloca l’azione di Obama su Guantanamo. E’ un’azione su cui l’amministrazione ha cercato di mantenere in questi mesi il silenzio, per evitare le polemiche e l’insorgere di altre paure. Il piano di Obama è sostanzialmente questo: trasferire parte dei detenuti, quelli considerati meno significativi, nei Paesi di origine o in Paesi terzi disponibili ad accoglierli; un’altra parte, decisamente minoritaria, fatta di prigionieri in attesa di processo negli Stati Uniti, verrebbe trasferita in carceri di massima sicurezza sul suolo americano.
Negli ultimi giorni il segretario alla difesa Ashton B. Carter ha notificato al Congresso la decisione di trasferire all’estero 17 detenuti. Il gruppo fa parte dei 48 inclusi in una lista di prigionieri pronti a essere rilasciati. Il Pentagono, spiegano fonti interne all’esercito, sta trattando il loro trasferimento con una serie di governi stranieri (che non sono mai ufficialmente identificati). Con la liberazione dei 17, il numero dei detenuti ancora nel campo dovrebbe attestarsi intorno ai 90. Contemporaneamente, l’amministrazione ha accelerato i lavori della commissione che sta valutando, caso per caso, chi può essere rilasciato e chi no. Sempre secondo fonti del Pentagono, sarebbero 54 i detenuti che dovrebbero restare nelle carceri americane, in attesa di giudizio.
Ed è qui che la strategia di Obama si scontra con l’opposizione dei repubblicani, che non vogliono sentir parlare di una presenza di presunti terroristi sul suolo degli Stati Uniti, sia pure chiusi in un carcere. Le interpretazioni legali sulla questione differiscono; c’è chi dice che il presidente può comunque, attraverso un ordine esecutivo, decidere il loro trasferimento. Obama ha però sinora preferito evitare lo scontro diretto e scegliere una strada diversa, più morbida e sfumata: svuotare progressivamente il carcere, sino a quando il numero di detenuti appaia troppo esiguo per tenere aperta l’intera struttura.
Nel momento in cui l’amministrazione gestisce la possibile chiusura di Guantanamo, emergono però critiche e polemiche per la sempre maggiore segretezza in cui molte delle operazioni vengono tenute. Ormai dal settembre 2013 il Pentagono ha deciso di non precisare più quanti detenuti sono in sciopero della fame. A quella decisione se n’è aggiunta un’altra più recente: limitare le visite dei giornalisti.
Sinora gruppi di reporter hanno potuto accedervi – senza però poter parlare con i detenuti – in ogni momento dell’anno, eccetto quelli in cui si tengono i processi militari. D’ora in poi, la stampa potrà accedere a Guantanamo soltanto per quattro “media days”, quattro giorni all’anno, in cui i reporter arriveranno sull’isola la mattina, per lasciarla la sera. Il Pentagono spiega di voler razionalizzare le visite. In realtà, la scelta permette di sottrarre sempre più Guantanamo al controllo di pubblico e gruppi per i diritti civili.