I paradossi giuridici del diritto d’autore saltano fuori ogni anno all’avvicinarsi della fine di ogni anno solare, quando le date di scadenza dei diritti legate alla morte dell’autore, che rendono le opere libere di essere pubblicate, mettono in allarme tutti coloro che in qualche modo sfruttano economicamente le creazioni di persone decedute oramai da decenni.

Nell’odierna società dell’informazione, si sa, è sempre più difficile immaginare il diritto d’autore come è stato pensato nel corso dei secoli; questo ha determinato, nella vasta fetta di persone interessate a vario titolo a continuare lo sfruttamento economico delle opere, l’esigenza di trovare soluzioni originali per non perdere questo diritto.

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Famoso il caso del Copyright Term Extension Act statunitense del 1998, che estende per ulteriori 20 anni la durata del diritto d’autore per le opere prodotte negli Stati Uniti dopo il 1923, portando la durata totale del copyright a 70 anni dopo la morte dell’autore nel caso di opere prodotte da singoli e a 120 anni dopo la data di creazione o 95 dopo l’anno di pubblicazione per le opere prodotte da un gruppo o impresa.

Negli Stati Uniti la norma è stata ribattezzata come Mickey Mouse Protection Act: senza questa legge, infatti, il primo cortometraggio di cui è protagonista  Topolino, Steamboat Willie, sarebbe entrato nel pubblico dominio nel 2003, ma anche altre opere avrebbero seguito la stessa sorte.

Oggi in verità il diritto d’autore non ha più nulla a che vedere con la persona dell’autore o con la circolazione dell’opera, intesa come arricchimento culturale della società, risolvendosi spesso in una caccia serrata allo sfruttamento di ogni centesimo disponibile ad opera di chi ne gestisce, spesso sotto forma di fondazioni redditizie o di multinazionali, lo sfruttamento economico.

Sintomatico da questo punto di vista quello che è accaduto in questi giorni a due opere che più all’opposto non potrebbero essere.

Da un lato l’opera più conosciuta di Adolf Hitler, il Mein Kampf, i cui diritti d’autore scadevano appunto nel 2015, e che, ovviamente non è protetto da nessun erede o da nessuna fondazione o multinazionale che ne rivendichi la titolarità, e che potrà quindi liberamente essere pubblicato, riadattato e letto in qualsiasi lingua, e dall’altro il Diario di Anna Frank, il manifesto contro la guerra della giovane ebrea deceduta nei campi di sterminio per mano nazista, che costituisce uno dei pilastri della cultura del 900 e che, invece, non potrà essere liberamente pubblicato.

Questo perché all’avvicinarsi della data di “liberazione” del testo, prevista alla fine del 2015, la fondazione svizzera Anne Frank Fonds, che gestisce i diritti d’autore sull’opera ha dichiarato che Otto Frank – padre di Anne morto nel 1980 – è stato coautore del famoso diario. Quindi, i diritti scadono 70 anni dopo la morte di Otto Frank e si dovranno pagare fino al 2049.

Nonostante ciò, proprio in questi giorni un docente dell’Università di Nantes, Olivier Ertzscheid, e la parlamentare francese Isabelle Attard, sfidando le “ire” della Fondazione, hanno messo online la versione integrale – in lingua originale e gratis – del Diario di Anna Frank.

A questo punto come osservato da uno di massimi esperti di copyright e pubblico dominio, Simone Aliprandi, “Ora restiamo in trepidante attesa del 2049, anno in cui probabilmente salterà fuori anche un fratello o un cugino di Anne che l’ha aiutata a correggere le bozze”.

Si spera a questo punto che non salti fuori, da qualche anfratto profondo della Storia, un “nipotino” del Fuhrer che, sfidando questa volte le “ire” della Storia, affermi di essere coautore del Manifesto sulla Razza del dittatore nazista.

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