Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Così le potenze occidentali che hanno prodotto nel 2011 la caduta di Gheddafi e la destabilizzazione della Libia, a dicembre si sono date da fare per promuovere un accordo tra le due fazioni principali in lotta in Libia. I motivi sono strettamente economici, la Libia è infatti un Paese chiave per l’approvvigionamento energetico dell’Occidente.
Dal 2014 in Libia ci sono de facto due governi, uno ubicato ad oriente e l’altro ad occidente del Paese, governi sostenuti da una rosa di Stati stranieri, milizie nazionali e tribù locali. E già anche qui ci troviamo di fronte ad una guerra per procura.
A Tobruk nella Libia orientale, vicino al confine con l’Egitto, è stata stabilita la sede del Parlamento libico riconosciuto a livello internazionale. Si tratta di quello eletto nel 2014. Il governo del primo ministro Abdullah al- Thinni ha sede nella città di Bayda ed è sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Egitto. In Libia conta su ciò che rimane dell’esercito libico, al momento guidato dal generale Khalifa Belqasim Haftar, che ha dichiarato guerra ad oltranza a tutte le fazioni islamiste.
Il governo di al-Thinni ha anche istituito una banca centrale parallela a quella di Tripoli e nominato il proprio capo della National Oil Company, l’azienda energetica di Stato. Ma la ricchezza del Paese, e cioè gran parte delle risorse energetiche, come pure le principali istituzioni finanziarie rimangono nelle mani delle autorità di Tripoli dove si trova il Khalifa al-Ghwell, il primo ministro nominato dal Congresso Nazionale Generale, e cioè il vecchio parlamento. Quest’ultimo nel 2014 ha esteso il proprio mandato non riconoscendo i risultati delle elezioni. I principali sostenitori internazionali di questo governo sono il Qatar e la Turchia mentre a livello nazionale al-Ghwell è sostenuto da diversi gruppi islamici, che però negli ultimi mesi hanno perso coesione.
Alba Libica, ad esempio, una coalizione di milizie sotto il comando delle autorità di Tripoli, si è frazionata, alcune fazioni sostengono il processo di pace lanciato dalle Nazioni Unite alla fine del 2015 che ha portato agli accordi del 17 dicembre tra i due governi, ma altre non ne vogliono sentire parlare.
Mentre il governo di Tripoli controlla un territorio ben più grande di quello di Tobruk, Tripoli deve fare i conti con le milizie locali. Quelle presenti nella capitale non sono solo islamiche ma sono costituite anche da bande di criminali. Senza parlare poi delle migliaia di uomini armati che si trovano a Misurata, anche loro sono una forza militare e politica del dopo Gheddafi.
La situazione è ancora più complessa quando prendiamo in considerazione i jihadisti stranieri e quelli libici che rientrano dai campi di battaglia della Siria e dell’Iraq. Costoro si sono riversati a Sirte, la città libica costiera, che è diventata una sorta di colonia dell’Isis, e che si trova in una posizione strategica, non lontano da grossi impianti petroliferi.
Secondo le Nazioni Unite, l’Isis controlla circa 300 km di costa della Libia e conta i tra i 2.000 e 3.000 jihadisti, di cui circa 1.500 a Sirte. E’ probabile che queste statistiche siano però troppo elevate e che la presenza dell’Isis in Libia sia minore di quanto si creda. Tuttavia esiste e qualsiasi accordo di pace tra i due governi e le varie fazioni deve tenerla presente.
Tante dunque le difficoltà che si prospettano in un futuro prossimo venturo per Fayez al-Sarraj, l’imprenditore scelto per guidare il governo transitorio libico di unità nazionale. Tuttavia, la corsa alle risorse libiche da parte degli occidentali è già iniziata. Il primo ministro italiano, Matteo Renzi, ad esempio, ha subito annunciato che il suo Paese lo sostiene e che è pronto a ristabilire i rapporti speciali tra le due nazioni.
Le relazioni tra la Libia e l’Italia erano ‘speciali’ con l’ex dittatore non solo ai tempi di Berlusconi, ma anche quando Romano Prodi era primo ministro e poggiavano sul principio do-ut-des. Per aiutare la Libia “nella gestione dei flussi migratori”, e cioè per fargli bloccare i migranti che cercavano di raggiungere l’Italia, la legge finanziaria del dicembre 2004 concesse 25 milioni di euro per il 2005 e 20 milioni per il 2006. Nel 2008 Gheddafi ringraziò tanta generosità offrendo all’Eni, la compagnia energetica nazionale italiana, un accordo di 10 anni per un valore di 28 miliardi di dollari nel settore del gas naturale libico.
Il Regno Unito, anch’esso molto interessato ai pozzi libici, ha dichiarato di attendere di essere invitato dal nuovo governo ad inviare truppe nel paese. Gli americani hanno persino mandato un contingente che è stato subito rimandato a casa.
Memore del fiasco del 2011, quando la Nato corse in aiuto dei ribelli e da allora la Libia non è stata in grado di formare un governo, il ministro degli Esteri libico ha affermato che la Libia non ha bisogno di alcun intervento straniero per far fronte alle minacce alla sua sicurezza, compreso il terrorismo. Ha però bisogno di armi migliori, ha aggiunto, e di aiuti nella formazione e pianificazione. Insomma il solito ritornello, dateci le armi al resto pensiamo noi! Fino ad ora questa formula, come pure quella dell’intervento armato diretto, ha solo creato anarchia e terrorismo, non si capisce perché le cose dovrebbero cambiare proprio ora.