Oltre 326 milioni di euro in tre anni [2011-2013] versati dalle casse dello Stato alle emittenti radiotelevisive in ambito locale, attraverso più di 7700 operazioni di pagamento diverse, le più consistenti delle quali destinate, però, a una manciata di soggetti.
Ventotto operazioni di pagamento da oltre un milione di euro ciascuna per oltre 40 milioni di euro, 77 operazioni – tra 500 mila euro ed il milione di euro – per oltre 53 milioni, 506 operazioni tra i 100.000 e i 500.000 euro sino ad arrivare a quasi 118 milioni di euro e, infine, poco più di 7000 operazioni, sotto i 100.000 euro, per quasi 115 milioni di euro.
Sono questi i numeri dai quali muove il severo j’accuse contenuto nella relazione, pubblicata lo scorso 30 dicembre, con la quale la Corte dei Conti ha chiuso la propria indagine sui finanziamenti pubblici alle emittenti radiofoniche e televisive in ambito locale.
La disciplina della materia, scrivono i Giudici contabili nella relazione, “non prevede una finalizzazione dei contributi stessi e appare quindi funzionale al mero sostegno economico alla gestione delle emittenti”, dando, peraltro, vita ad “un sostanziale fenomeno di polverizzazione delle provvidenze, tale da mettere in luce l’incongruenza dello strumento finanziario utilizzato, privo di qualunque misura di rendicontazione successiva”.
E a leggere le cinquanta pagine della relazione, in effetti, la convinzione che si trae è che la Corte dei Conti punti l’indice più contro leggi e regolamenti inadeguati a governare il fenomeno dei finanziamenti pubblici a radio e Tv che contro le tante amministrazioni responsabili della loro gestione che, pure, probabilmente potrebbero fare meglio e di più.
Oltre 100 milioni di euro all’anno che escono dalle casse dello Stato ed entrano in quelle di una miriade di soggetti privati senza che nessuno verifichi come vengono usati e, soprattutto, se e quale effetto benefico per la collettività producono.
E’ questo il senso della più dura delle critiche che la Corte dei Conti indirizza al sistema dei finanziamenti pubblici in questione.
Ma sul punto la magistratura contabile è chiara nell’assolvere il Ministero dello Sviluppo economico da ogni responsabilità: “Osserva la Corte che, d’altra parte, l’amministrazione [ndr il dipartimento per le Comunicazioni del Ministero per lo sviluppo economico] – con gli strumenti di cui attualmente dispone – non ha modo di rilevare sia nella fase anteriore al rilascio dei contributi, e neanche nella fase successiva alla erogazione, quali effetti si producano”.
E nel mare magnum della pioggia di finanziamenti il cui sistema di erogazione lascia perplessa la Corte dei Conti, i giudici contabili indugiano su una circostanza più curiosa delle altre.
Si tratta della montagna di soldi – circa 800.000 euro – che, ogni anno, affluiscono nelle casse di Radio Maria e Radio Padania, uniche due emittenti nazionali comunitarie cui è, per legge, destinato il 10 per cento [5 per cento ciascuna, ndr] della quota dei finanziamenti complessivi destinati al settore radiofonico.
A non convincere i Giudici contabili è, però, in particolare la posizione di Radio Padania che – secondo quanto accertato sulla base delle sole informazioni disponibili al pubblico [il piano delle frequenze reso disponibile sul sito internet della Radio, ndr] – non diffonderebbe il proprio segnale analogico sull’intero territorio nazionale come, per contro, secondo la Corte dei Conti, imporrebbero le regole per l’accesso ai finanziamenti.
Ad evitare ogni equivoco, fraintendimento o strumentalizzazione vale la pena riportare parola per parola, quanto messo nero su bianco dai Giudici della Corte: “Dall’esame dei dati sulle frequenze analogiche di Radio Maria e Radio Padania, desunti dai rispettivi siti internet, emerge che la diffusione del segnale analogico di Radio Maria appare sostanzialmente omogenea e uniforme su tutto il territorio nazionale”.
Per Radio Padania la situazione si presenta invece diversa, con una diffusione non uniforme sul territorio nazionale, e con assenza di segnale radioelettrico su parte consistente del territorio: da informazioni di pubblico dominio (sito internet dell’emittente) emerge che il segnale analogico è diffuso in nove regioni italiane (Val d’Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Trentino, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Sardegna) e che in undici regioni non coperte da segnale analogico (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Lazio, Marche, Molise, Puglia, Sicilia, Toscana e Umbria) il segnale è diffuso in tecnica digitale (Dab – Digital Audio Broadcasting); il segnale digitale è indicato anche in aree di alcune regioni (Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte e Veneto) servite dalla trasmissione radioelettrica.
La Corte osserva che la mancata diffusione del segnale analogico sull’intero territorio nazionale potrebbe avere effetto anche sulla ricorrenza dei presupposti per l’erogazione dei contributi, dal momento che l’erogazione dei contributi appare legata al carattere di nazionalità (inteso come diffusione analogica del segnale su tutto il territorio italiano) enunciato dal c. 190, art. 4, l. n. 350/2003, ove i soggetti beneficiari sono individuati nelle “emittenti radiofoniche nazionali a carattere comunitario”.
E, infatti, nelle conclusioni della propria relazione i magistrati contabili dopo aver rilevato che “la struttura della norma di riferimento (art. 4, c. 190, l. n. 350/2003), così come concepita, privilegia due sole emittenti sulla platea dei beneficiari della radiofonia”, invita “l’amministrazione [il Ministero dello sviluppo economico, ndr] a compiere gli accertamenti sulla diffusione del segnale analogico sull’intero territorio nazionale, da parte delle emittenti radiofoniche comunitarie, e a verificare di conseguenza la ricorrenza dei presupposti per l’erogazione dei contributi.”.
Il dubbio, nella sostanza, è che mentre gli oltre 100 milioni di euro spesi ogni anno per finanziare radio e tv in ambito locale sono, probabilmente, talvolta spesi male ma “a norma di legge”, la quota – peraltro tra le più grosse – destinata a Radio Padania sia addirittura versata alla beneficiaria senza che quest’ultima disponga di tutti i requisiti previsti dalla legge.