La storia del magistrato di Taranto, raccontata dal Corriere della Sera, potrebbe richiedere l'intervento del Csm. "Celebro 160 processi all’anno e nel triennio il futuro massimo di capacità lavorativa esigibile è già prenotato e esaurito da 500 altre cause più vecchie di questa" mette nero su bianco nelle motivazioni del rinvio
Una causa rinviata al 2019 perché in calendario ci sono già altri 500 procedimenti. La storia del giudice di Taranto, raccontata dal Corriere della Sera, potrebbe richiedere l’intervento del Csm. L’ipotesi di lavorare di più è impraticabile anche perché “la Convenzione dei diritti dell’uomo vieta schiavitù e lavoro forzato” scrive il magistrato nelle motivazioni della decisione.
A richiedere un intervento al Consiglio superiore della magistratura per Alberto Munno è stato il consigliere laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin. “Celebro 160 processi all’anno e nel triennio il futuro massimo di capacità lavorativa esigibile è già prenotato e esaurito da 500 altre cause più vecchie di questa” mette nero su bianco il giudice.
Al Csm Zanettin sollecita una doppia iniziativa: l’apertura di una pratica in Prima Commissione “per valutare se l’improprio paragone con la schiavitù e il lavoro forzato dell’attività del magistrato , non comporti inevitabilmente un appannamento dell’immagine e del prestigio dell’ordine giudiziario”; e l’ avvio di un altro fascicolo in Settima Commissione “per verificare il programma di smaltimento dell’arretrato civile predisposto dal presidente del tribunale di Taranto e il carico effettivamente esigibile” dal magistrato in questione.
La causa civile è iniziata nel settembre 2014 e dopo un rinvio fissato al 21 dicembre 2015 il giudice l’ha messa in agenda per il 18 gennaio 2019. In tre pagine di ordinanza il magistrato, probabilmente consapevole di essere passibile di un provvedimento (la legge Pinto risarcisce chi non ottiene una sentenza di primo grado entro 3 anni) ricorda che all’inzio della causa il 26 settembre 2014 si ritrovava sul ruolo un imbuto di “500 cause più vetuste” che dovevano “trovare prioritaria definizione negli anni 2015, 2016 e 2017 e 2018”. Il Corriere sottolinea comunque come il giudice sia performante perché la sua produttività risulta superiore “anche alla media nazionale dei giudici civili che si aggira tra le 120 e le 140 sentenze annuali e il cui indice di smaltimento del 131% piazza la magistratura italiana al terzo posto sui 47 Paesi del Consiglio d’Europa”.
Il magistrato, nel provvedimento, non ha lasciato nulla al caso. Ha anche considerato il fatto che gli si potesse contestare di dover lavorare il sabato. Pur conteggiando questo giorno della settimana “che non è considerato lavorativo in numerose amministrazioni statali anche di livello apicale”, in un anno lavorativo fatto di 270 giorni “il giudice civile – argomenta Munno – può dedicare non più di 140 giorni allo studio dei processi e alla redazione delle sentenze e delle ordinanze monocratiche e collegiali, previo studio delle questioni giurisprudenziali”, perché gli altri 130 sono occupati dalla “celebrazione delle udienze tabellari monocratiche e collegiali, e dalle ulteriori attività di ufficio”.
Ovvio che, si potrebbe lavorare giorno e notte, domenica e festivi (ed esistono casi di magistrati che si mettono in ferie per potere scrivere le motivazioni di sentenze, ndr), ma “la protrazione sine die dell’impegno lavorativo comporterebbe un’inammissibile compressione dei diritti inviolabili della persona umana del magistrato impiegato, essendo la durata massima della giornata lavorativa preordinata alla tutela dei diritti di cui all’art. 2 della Costituzione” prosegue Munno