Un’osservazione sul tema “difficile sfera affettiva femminile” curato con una regia (femminile) attenta e misurata, da una messa in scena in cui sono tolti riferimenti didascalici geografici o scenografici, e da una qual malinconia per quell’allure compassata e ficcante da commedia francese a cui la Morante occhieggia con risultati encomiabili fin dall’esordio alla regia con Ciliegine
Ci vogliono un bel coraggio e una bella grinta per girare un film come Assolo. Laura Morante, all’anagrafe classe ‘56, affronta la soglia dei 50 anni al femminile in un’operetta garbata, leggiadra e divertente che ha per protagonista una donna single piena di ex mariti, figura centrale di un turbinio di vite (altre), figli, amiche, pretendenti. Flavia, ovvero la Morante, silente vittima di una generosità irrefrenabile verso gli affetti più cari, anche di chi l’ha tradita, è sempre in scena, sequenza dopo sequenza. E, va detto subito, Flavia/Laura non pesa mai, solipsisticamente, al film come una delle classiche zavorre centralizzatrici di molti accentratori protagonisti del cinema italiano.
Curioso infatti come Assolo, opera che tanto decanta fin dal titolo l’eccezionalità della performance individuale, abbia poi bisogno, anzi quasi ceda volontariamente il passo al florilegio dei cosiddetti comprimari che si prendono voracemente l’intero film tra battute, inquadrature e caratterizzazioni singolari. Lo script si avviluppa attorno ad una sorta di infinita seduta psicoanalitica (la dottoressa Grunewald interpretata da Piera Degli Esposti è personaggio bellocchiano fino al midollo) a cui si sottopone Flavia, lasciata dagli ex mariti Gerardo (Pannofino) e Willy (Gigio Alberti) a loro volta risposati il primo con una pratica e semplice signora dalle fattezze felliniane, l’altro con una frizzante, impegnata e filiforme trentenne.
La donna vive un perenne blocco affettivo /comunicativo: di fronte all’analista come di fronte agli uomini, ma anche di fronte alle donne degli ex (con cui cena insieme, a cui si affida per diverse pratiche della quotidianità, ecc..), con i figli e con i vicini, con le amiche in crisi identitaria peggio di lei e con quelle sbarazzine nel dare consigli che poi però si fanno picchiare dai mariti. In Assolo però il richiamo a particolari realistici è ridotto all’osso. Anche il confronto e la mimesi con alcune delicate patologie dell’anima e della mente vissute dalla protagonista confluiscono sempre in dettagli evocativi o in azioni che sublimano gli atti in sé (ed esempio la spinta di Willy che fa cadere la Morante non è la brutalità di un gesto che provoca tagli sulla fronte e urla, ma l’evocazione dei tratti di un litigio) portandoli su una doppia, onirica e spiritosa, pista psicoanalitica non poi così complicata da comprendere. Si attende parecchio lo sblocco di Flavia: esame disastroso di guida che segue all’adozione temporanea di una meravigliosa cagnetta, dialogo a tavola con il figlio parecchio grandicello che le impone tipo di auto da prendere per poi guidarla lui, fughe dentro l’armadio dell’analista per non volere finire la “cura”.
Fuori dal cerchio magico delle abitudini ci sono personaggi incredibili che la aspettano al varco: il rozzo collega di lavoro autocompiacente (Marco Giallini, sempre una spanna oltre), il tenero istruttore di guida (Antonello Fassari), o il bel tanghero col naso patatone. Fuori o dentro? Orientare i propri desideri, bisogni, e la propria vita, o farsi portare da essa dove vuole per poi piangersi addosso? La soluzione non è così facile o hollywoodianamente banale, nemmeno imposta come happy end. Semmai contano più l’esposizione dell’impasse psicologica e la ricerca per uscirne, che il problema in sé. Insomma Assolo non è un film con lo scandaglio bergmaniano caricato a mille, ma un’osservazione sul tema “difficile sfera affettiva femminile” curato con una regia (femminile) attenta e misurata, da una messa in scena in cui sono tolti riferimenti didascalici geografici o scenografici, e da una qual malinconia per quell’allure compassata e ficcante da commedia francese a cui la Morante occhieggia con risultati encomiabili fin dall’esordio alla regia con Ciliegine (2012). La sequenza della masturbazione interrotta dal cane ha tempi comici da più che matura commediante. Si ride parecchio senza sbracarsi e non ci si annoia mai. Producono Roberto Cicutto e Luigi Musini (La bellezza del somaro, Il mestiere della armi). Distribuisce l’americanissima Warner Bros.