No, il dibattito su Checco Zalone no! Almeno non su Quo vado?, film disimpegnatissimo e divertentissimo come gli altri tre, che va semplicemente visto e applaudito per i meccanismi comici perfetti e per la leggerezza di fondo che lo sostiene per aria. Invece, per favore, sì il dibattito sì su quelli che vanno a vederlo e, appena usciti, sono colti da un’irrefrenabile voglia di discuterlo, sistematizzarlo, incasellarlo da qualche parte: a destra, a sinistra, al centro, pro o contro l’antipolitica, il qualunquismo, il populismo, dentro o fuori dalla satira politica o sociale o di costume, alla scuola di Sordi, di Totò, di Tati, di Keaton, di Bombolo. Gente che non solo non capisce il film, ma manco il titolo: ma dove credete di andare? Ma è così difficile rassegnarsi all’idea che Zalone voleva solo farvi ridere?
Poi, certo, per far ridere ci vogliono intelligenza e cultura, ma vanno nascoste bene. Ed è naturale ispirarsi alla vita, alla realtà che conosciamo meglio: i nostri tic, vizi, vezzi, manie, ossessioni e quelli di chi ci sta vicino o lontano, e anche sopra, al potere: il posto fisso, le auto in doppia fila, l’assenteismo e il fancazzismo negli uffici pubblici, la finta malattia professionale, la falsa invalidità, le riforme che non cambiano nulla se non il nome degli enti inutili, la raccomandazione del politico, la mancia che diventa subito corruzione, la fila saltata al discount, le battute da bar maschiliste, sessiste e xenofobe e gli altrettanto insopportabili birignao del politicamente corretto, i ricercatori costretti a emigrare al Polo Nord, la mammoneria del bamboccione che all’estero crede di diventare civile ed evoluto almeno finché non scopre che Romina e Al Bano si son rimessi insieme e che parcheggiare in doppia fila è tanto liberatorio. Così chi va al cinema ci vede subito se stesso o qualcuno che conosce. Ma senza, per questo, introiettare “messaggi” né “istanze” particolari, tantopiù che il lieto fine lava tutto con una redenzione tutta privata e individuale. All’italiana.
Non c’è niente da fare: anche stavolta, come per tutti i fenomeni nazionalpopolari, il dibbbattito politologico, filosofico, culturale e sociale incombe, urge e prorompe puntuale, ineluttabile, inarrestabile e surreale come solo noi italiani sappiamo farlo. Comico almeno quanto il film, forse anche di più. Gasparri, che quando può dire una pirlata non si tira mai indietro, twitta che Zalone ce l’ha con Renzi, “bugiardo imbroglione” per via delle Province abolite per finta.
Il Giornale pensa a una satira contro la “riforma della PA”, cioè “ai provvedimenti del governo Renzi”, anche se – scandalo! complotto! – “sparisce la battuta antirenziana” contenuta nella canzone-trailer. Libero, pure, ci vede “un film anti-riforme” che “coglie un’esigenza della gente, arcistufa dei nuovi politici”, “l’idea che gli anni del rigore, della rottamazione e del grillismo, delle loro retoriche puritane abbiano stancato”, insomma “l’inno dell’Anti-antipolitica”, perchè Checco è “l’unico che capisce gli italiani”. Dall’altra parte, a sinistra, lo scrittore Lagioia lo definisce su Repubblica un “qualunquista buono” e paventa il “rischio” forse “pericoloso” di un “qualunquismo dei buoni di cuore risolutivo a fin di bene” (boh). Per Riccardo Barenghi, la Jena de La Stampa, se “milioni di italiani corrono a vedere Checco Zalone”, siamo “ingenui noi che ci meravigliamo che al governo ci sia Renzi”. Quindi Checco, a Renzi, gli tira la volata, o forse viceversa.
Era già accaduto, il dibbbattito, dopo il penultimo film Sole a catinelle. Michele Serra vi notò tracce evidenti di berlusconismo. E, paradossalmente, pure Brunetta, che vide in Checco, a occhio nudo, “la filosofia positiva, generosa, anticomunista, moderna, serena di Berlusconi”, perché “il colore azzurro della sua risata è il nostro e la sinistra non può farci nulla”. Poi Zalone lo sfanculò alla sua maniera: “La sua interpretazione è un po’ troppo alta, anche se per Brunetta è un ossimoro”. E allora Renatino svoltò: “Il suo banale razzismo non fa ridere, Zalone ha superato l’esame: non è un berlusconiano, è un comico di sinistra”. Cosa che peraltro sosteneva pure Marco Giusti, nel suo decalogo semiserio “Perché Zalone è quasi comunista”. A metà strada si collocò il cosiddetto ministro Franceschini, che spiegò al Foglio l’ultima storica anzi epica mutazione genetica della sinistra che “oggi non ha più paura di Checco Zalone”. E furono soddisfazioni.
Par di vederlo, oggi, Checco riunito in un baretto di Bari col suo gruppo di complici che il regista Gennaro Nunziante definisce “un branco di deficienti”, mentre mette giù il soggetto del prossimo film. Protagonisti: i meglio politici, commentatori e intellettuali del bigoncio che si interrogano pensosi sul successo di un film comico e non si capacitano della voglia degli italiani di farsi qualche sana risata senza l’aiuto della triade da cinepanettone culi-tette-scoregge, in un Paese dove c’è poco da ridere. E il presidente del Consiglio Renzi, noto imbucato, che non resiste alla tentazione di saltare sul carro del vincitore facendo notare che lui non l’ha mai “ignorato” o “snobbato” o detestato”, anzi è sempre stato dalla sua parte: mica come quei gufi dei “professionisti del radical chic” (espressione che lui pronuncia senza conoscerne il significato e apparirebbe un po’ vecchiotta in bocca a un colonnello in pensione in marcia con la maggioranza silenziosa nei primi anni 70, figurarsi in un politico quarantenne). Poi corre a leccare la marmitta a Marchionne. Ma forse quest’ultima scena è troppo volgare per entrare nel prossimo film di Checco.
Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2016