Dal 10 gennaio e per 30 giorni società e cordate di imprenditori interessate a comprare o prendere in affitto il siderurgico potranno presentare le manifestazioni di interesse. "Continuità produttiva" e "mantenimento dei livelli occupazionali" tra i requisiti. E spunta la scappatoia sulla restituzione dei 300 milioni di soldi pubblici stanziati con l'ultimo decreto
Dal 10 gennaio società e cordate di imprenditori interessate alla “cessione” o alla “concessione in affitto, con opzione d’acquisto” dell’Ilva di Taranto potranno ufficialmente presentare le manifestazioni di interesse: per 30 giorni, fino alle 18 del 10 febbraio, si potrà quindi esprimere la volontà di valutare l’acquisto dello stabilimento siderurgico ionico e per le altre società che fanno capo a Ilva spa come Ilva Servizi Marittimi spa, Ilvaform spa, Innse Cilindri srl, Sanac spa, Taranto Energia srl, Socova sas e Tillet sas. Lo prevede il bando pubblicato martedì, come previsto dal decreto firmato lunedì dal ministro Federica Guidi.
Nel documento predisposto dai commissari straordinari di Ilva, Corrado Carruba, Piero Gnudi ed Enrico Laghi, si legge infatti che alla procedura per il “trasferimento dei complessi aziendali facenti capo alle società in amministrazione straordinaria” potranno partecipare “imprese individuali o in forma societaria (ritenute tali in base alla legge dello Stato di appartenenza) di qualsiasi nazionalità, sia singolarmente sia congiuntamente ad altre imprese individuali o in forma societaria (‘Cordata’)” purché “siano in grado di garantire la continuità produttiva dei complessi aziendali oggetto dell’Operazione, anche con riferimento alla garanzia di adeguati livelli occupazionali, sviluppare la relativa produzione siderurgica in Italia anche con sinergie con altri comparti industriali nonché la rapidità ed efficienza dell’intervento, anche con riferimento ai profili di tutela ambientale”. Non solo. Le società o le cordate interessate dovranno possedere una serie di requisiti: non essere ovviamente in stato di liquidazione, di insolvenza o destinatarie di provvedimenti interdittivi per responsabilità oggettive. Anche i rappresentati legali e i vertici delle società interessate all’acquisto di Ilva dovranno essere in possesso di una fedina penale immacolata o quasi.
La manifestazione di interesse, però, dovrà essere fatta a carte scoperte: “Non saranno prese in considerazione – hanno infatti chiarito i tre commissari – manifestazioni di interesse che siano proposte per persona da nominare, che siano espresse da intermediari o da società fiduciarie, o per le quali non sia chiaramente identificabile l’impresa individuale o in forma societaria” oppure “i componenti della Cordata”. Inoltre la manifestazione dovrà contenere, oltre ai documenti legali e ai bilanci degli ultimi tre anni (laddove possibile), anche “ogni documento ritenuto utile a dare evidenza dell’attività svolta dal soggetto istante e della sua capacità di garantire la continuità produttiva dei complessi aziendali oggetto dell’operazione, anche con riferimento alla garanzia di adeguati livelli occupazionali”.
Insomma gli interessati dovranno dimostrare di avere le carte e i fatti in regola per mettere le mani su una fabbrica che oggi conta circa 12mila dipendenti diretti e circa altri 3mila nell’indotto. Posti che non dovranno essere persi e attività produttive che non potranno essere delocalizzate dato che il bado parla espressamente di “sviluppare la relativa produzione siderurgica in Italia”.
A coloro che avranno presentato la manifestazione di interesse, una volta verificati i requisiti richiesti dal bando, verrà inviata una “lettera di procedura” che regolamenterà la durata della fase di due diligence, le modalità e i contenuti delle offerte da presentare, le modalità per l’espletamento di una o più fasi di rilancio dello stabilimento che può essere limitata solo a una parte degli offerenti. Toccherà poi ai commissari Carrubba, Gnudi e Laghi selezionare la “migliore offerta vincolante ricevuta” e avviare “una fase di negoziazione in esclusiva con il relativo soggetto offerente per la definitiva implementazione dell’Operazione”. Un’operazione che, come detto, ha “ad oggetto il trasferimento dei complessi aziendali facenti capo alle Società in A.S. e potrà essere perfezionata con il Partner – anche tramite società di nuova costituzione – mediante cessione o concessione in affitto, con opzione d’acquisto, dei medesimi complessi aziendali”. Insomma l’acquirente potrà mutare forma che dopo l’aggiudicazione.
Inoltre “i termini e le garanzie per l’assolvimento degli obblighi” sia ambientali che economici – gli acquirenti dovranno restituire allo Stato i 300 milioni stanziati con il nono decreto Salva Ilva – saranno “fissati unitamente alla definitiva implementazione dell’Operazione”. Insomma una volta individuato il nuovo proprietario dell’Ilva, i “dettagli” saranno limati. Nelle intenzioni del governo lo scopo dell’operazione “è di preservare la continuità operativa dei complessi aziendali delle Società in A.S. con idonee garanzie di mantenimento di adeguati livelli occupazionali, sviluppare la relativa produzione siderurgica in Italia e consentire l’implementazione delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria e degli altri investimenti necessari e/o opportuni per l’ottimizzazione degli impianti produttivi”.
Sulla carta tutto nobile e chiaro, ma nei fatti le cose appaiono particolarmente complicate. In primo luogo, infatti, viene da chiedersi come può lo Stato vendere una fabbrica che formalmente è ancora, sebbene in amministrazione straordinaria, di proprietà della famiglia Riva che certo non resterà a guardare impassibile. Il rischio, quindi, è di trovare sulla strada per il rilancio dell’Ilva un nuovo scoglio come il “no” del tribunale di Bellinzona allo sblocco di 1,2 miliardi sequestrati proprio ai Riva dai giudici milanesi.