Ospito il contributo di Marco Di Donato, dottore di ricerca in Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Genova, ricercatore del centro studi Unimed nonché autore di ‘Hezbollah, Storia del Partito di Dio’, Mimesis Edizioni, 2015 (FR)

Due anni in prigione poi l’esecuzione insieme ad altri 46. Secondo Robert Fisk, la morte dello shaykh Nimr Baqir al-Nimr “ha il chiaro intento di far infuriare l’Iran e l’intero mondo sciita”. Risultato raggiunto in pieno se si considera che oggi in Iraq, nella regione di Hilla, sono state attaccate alcune moschee sunnite. Di sicuro si è scatenata l’ira del Segretario Generale di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah, che ha duramente attaccato la monarchia saudita su tutta la linea: dal sostegno ad Israele contro i palestinesi, alla violazione dei diritti umani, all’operazione di distruzione della umma, la comunità islamica.

Proteste sciiti Iran 675

I 47, secondo Arabpress, sono “stati condannati per aver concorso alla realizzazione di attacchi terroristici compiuti da al-Qaeda tra il 2003 e il 2006”. L’ambasciata saudita a Teheran è stata posta sotto assedio e attaccata dai manifestanti. Tutto il personale presente è stato evacuato. Seguendo l’esempio saudita, anche gli Emirati Arabi Uniti hanno rotto le relazioni diplomatiche con l’Iran.

Ovviamente l’esecuzione di al-Nimr, per usare una banale metafora, è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Molti esperti lo hanno definito un colpo a sorpresa, anche se Olivier Da Lage su Orient XXI, ci informa che la condanna a morte risale all’ottobre 2014.

L’Iran e l’Arabia Saudita vedono oggi i loro interessi confliggere in molti degli scenari più controversi e drammatici della regione: dalla Siria, allo Yemen, senza dimenticare il Bahrein ed ovviamente l’Iraq e senza valutare l’impatto che l’accordo sul nucleare iraniano potrebbe avere sulla regione e sulle mire egemoniche saudite. Sbaglia Anthony Samrani de L’Orient le Jour, quando definisce “guerra fredda” l’opposizione fra Arabia Saudita ed Iran: i fronti di battaglia sono, tutti, estremamente caldi.

Un grande gioco di interessi, come lo ha definito al-Jazeera, intricato e decisamente complesso che ovviamente non si basa sulla religione. Un’interessante prospettiva in merito la fornisce un’editoriale di al-Akhbar, dove si afferma chiaramente che la base per l’uccisione di al-Nimr non sia settaria, confessionale, religiosa. Ossia al-Nimr non è stato ucciso in quanto sciita, ma in quanto “non aveva giurato obbedienza all’autorità dei musulmani nel regno”.

In buona sostanza si tratterebbe di una questione di opposizione politica, per aver criticato la casa reale (teoricamente guardiana dell’Islam e dei suoi luoghi sacri) per non aver garantito libere elezioni e per aver sistematicamente violato i diritti umani. Un uomo che molti giornalisti arabi presentano oggi come un vigoroso oppositore, un eccellente tribuno, un dignitario della locale comunità sciita di ‘Awamiyya, regione del Qatif. Insomma mai un terrorista o un violento. Al massimo un “rejectionist” come lo definiva l’International Crisis Group nel 2005.

Un simbolo delle proteste, secondo lo studioso Toby Matthiesen. Un personaggio più che scomodo per gli equilibri nazionali, come sottolinea al-Arabiya, che invece lo dipinge come un pericoloso terrorista la cui lista di attività criminose è lunga è ben documentata. Un uomo che voleva a chiare lettere l’istituzione della Wilayat al-Faqih (il governo del giureconsulto) in Arabia Saudita ed in Bahrein. Certo è che secondo la legislazione saudita, aggiornata in questo senso nel 2014, un terrorista è chiunque ha intenzione di minare il sistema politico (vigente) e danneggiare la reputazione del regno.

In ogni caso, al-Nimr appare oggi come il martire ideale per il mondo sciita che oggi può rispolverare la logica della lotta contro l’oppressore, paragonare il califfo Yazid (responsabile della morte di uno dei figli di ‘Ali, Hussein) alla monarchia saudita, può rileggere la battaglia dell’Iran e dell’Arabia Saudita come una nuova Kerbala, può insomma attingere a piene mani alla propria retorica. “Dio non perdonerà”, ha tuonato la Guida Suprema Khamenei.

Che tuttavia la questione sia meramente politica, nella sua accezione più ampia, lo dimostra la reazione dei Paesi arabi a livello regionale. L’Egitto, tramite al-Ahram, ha immediatamente condannato l’attacco dell’ambasciata saudita di Teheran, definendo “l’Iran un paese sostenitore del terrorismo e governata da ciechi”. Ancora più dettagliata la condanna nei confronti dell’Iran di uno dei principali giornali del Bahrein (Al-Akhbar al-Khalijii), che ha ricordato come Teheran sia stato Paese responsabile, nel solo 2015, dell’esecuzione di un migliaio di persone.

Che la questione sia politica, lo dimostra anche il fatto che gli altri condannati a morte fossero quasi tutti sunniti. Secondo alcune fonti solo lo shaykh al-Nimr ed altri 4 erano sciiti. Da un lato dunque con l’esecuzione dei terroristi jihadisti, la monarchia di Riad ha voluto testimoniare il proprio impegno nella lotta al terrorismo giustiziando personaggi che avevano relazioni con al-Qaeda e un’implicazione in una serie di attentanti negli anni addietro. Dall’altra l’uccisione di al-Nimr mostra a quello stesso mondo sunnita che i Saud sono pronti a qualsiasi misura necessaria per contrastare “la minaccia iraniana” nella regione.

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