Justin Kurzel supera perfino il grandioso e maledetto lavoro di Roman Polanski del 1971 da molti criticato per l’eccessiva rappresentazione della crudeltà. Il regista sembra come meno affascinato dalla morbosità estemporanea della carne rispetto ai caratteri del film di Polanski, per farne invece un personaggio più universalmente riconoscibile, dalle mani imbevute di sangue, e soggiogato dall’eternità della più pura e asettica brama di potere
“Non chiedetemi di parlare. Guardate, e parlate voi stessi”. È l’invito migliore, con le parole di William Shakespeare, di fronte all’orrore dello sgozzamento del re Duncan di Scozia, per andare al cinema a vedere il crudo e maestoso Macbeth diretto dal semisconosciuto Justin Kurzel, in uscita in Italia per Videa dal 5 gennaio 2016. Dentro alla tenda da campo, in cui l’omicidio sanguinoso del regnante è stato compiuto dal titubante protagonista, viene esaltato quel rosso strabordante emoglobina, tinta fortissima e penetrante, di ritorno infernale negli ultimi venti minuti di film, cifra stilistica di questa tragedia shakespeariana in cui viene racchiuso mirabilmente il più grande racconto su potere, pazzia e morte di ogni tempo.
Come dire: non che per Kurzel e il terzetto di sceneggiatori (Jacob Koskoff, Michael Lesslie, e Todd Louiso) l’opera di riduzione del testo originario (ce n’è una buona traduzione con testo a fronte edita da Garzanti ndr) sia stata una faticaccia. Lo script sembra un classico lavoro di cesello per far emergere una gamma circoscritta del tono tragico, tetro e mortifero del testo: nulla di un qualsiasi momento di ammiccamento ad una dimensione di senso più “leggera”, di allentamento della presa sullo spettatore, di punto di fuga nel dialogo e nella rappresentazione dei caratteri, che non sia sporca e ieratica appare nelle immagini di questo Macbeth.
Il plot è conosciuto ai più, ma giova ricordarne i tratti salienti. Macbeth, valoroso combattente con spade e pugnali nella guerra di Scozia, conosce sul campo di battaglia gloria e onore dal proprio re, ma viene condotto alla rovina prima dalla profezia di tre streghe che suggeriscono a lui e al compagno di sventura Banquo la futura reggenza del trono scozzese grazie allo scorrere del sangue di Duncan; sia da Lady Macbeth, vera e propria belva assettata di potere che incita il marito alla carneficina. Così l’andamento della narrazione nel film di Kurzel si orienta sulle tappe furiose degli omicidi continui che serviranno a Macbeth e signora per conquistare, poi mantenere, infine perdere, il trono insanguinato di Scozia. Tra vibranti monologhi e scene di massa dove cori di sudditi e rumori di armi in battaglia si compenetrano come in un’unica voce lontana e ancestrale, vi è poi la fusione con l’intrecciarsi dello stridio di archi e gli accordi di malinconici sintetizzatori per una partitura musicale – opera di Jed Kurzel (fratello del regista) – di rara bellezza, tensione e rigore. Macbeth ha poi nei due interpreti – Michael Fassbender e Marillon Cotillard – una malvagia e malata rappresentazione di ambiziosi caratteri che portano inevitabilmente alla follia.
La mente di Fassbender “piena di scorpioni” come il suo delirante incedere senza più legami con il reale, la feroce e immutabile decisione di Lady Macbeth nel perseguire il suo piano di conquista e morte fino ad un patologico eclissarsi, sembrano come affiorare continuamente e in modo palpabile in una sorta di terza dimensione materica, brutale e funerea del quadro senza bisogno di alcun occhialetto 3D posticcio. Per chi scrive il Macbeth di Kurzel supera perfino il grandioso e maledetto lavoro di Roman Polanski del 1971, finanziato dai denari di Playboy e di Hugh Hefner, da molti criticato per l’eccessiva rappresentazione della crudeltà. Kurzel sembra come meno affascinato dalla morbosità estemporanea della carne rispetto ai caratteri del film di Polanski, per farne invece un Macbeth più universalmente riconoscibile, dalle mani imbevute di sangue, e soggiogato dall’eternità della più pura e asettica brama di potere.
La clip per il Fatto.it