Fa già discutere la prossima copertina di Charlie Hebdo, in imminente uscita, che mostra un dio barbuto, col kalashnikov a tracolla, che, lo sguardo goffamente truculento, se la dà letteralmente a gambe inseguito, s’immagina, dalle polizie di mezzo mondo per via dei suoi crimini. In vece dell’aureola, l’incorona l’occhio della provvidenza a rappresentare, nell’intenzione del vignettista, che si tratta del dio unico condiviso dai tre (supposti) monoteismi, che poi a ben guardare troppo monoteistici non sono, ma non è il caso, qui, d’approfondire.
Insorgono, ovviamente, vescovi e imam (tacciono i rabbini, ma forse solo per disdegno). Eppure stavolta la prima pagina di Charlie è – certo soltanto a livello d’intuizione – un implicito trattato di storia delle religioni. Se infatti, cosa che sarebbe quantomai opportuno fare, s’abbandona quell’eccessiva lente d’ingrandimento sul presente che trasforma ogni riflessione storica in pollaio giornalistico, alla radice dell’odierna situazione s’intravvedono fenomeni che provengono da molto lontano e coinvolgono lo statuto teologico-politico della nostra società non meno che quello dei paesi islamici del Medio-Oriente e dell’Africa musulmana (discorso a parte, invece, andrebbe fatto per il caso indonesiano).
Alla domanda che bisogna porsi, se esista, cioè, un legame indissolubile tra monoteismo e violenza, è infatti necessario rispondere affermativamente. Ce lo spiega la struttura sociale che sta alla base del modello indoeuropeo. Ribattere che tanto l’islamismo che l’ebraismo – dunque anche il cristianesimo, almeno in origine – sono fenomeni di provenienza semitica, è obiezione pertinente solo fino a un certo punto, poiché se vale per il contesto arcaico, per la precisione almeno pre-paolino (cioè precedente financo alla nascita della religione islamica), smette di far presa non appena si consideri che lo scenario attuale è il prodotto di un’indoeuropeizzazione universale del politico – consolidatasi appunto con la teologia paolina e resasi definitiva con la globalizzazione – rispetto alla quale non v’è modello economicamente non isolato che possa oggi rivendicare estraneità. Detta in breve: tra il “cristianesimo culturale” che domina l’Europa, il militarismo israeliano, gli startup tecnologici della Silicon Valley, il programma nucleare iraniano e il capitalismo di stato cinese, nessuna rilevante distinzione metafisica è ancora possibile. Ma che cosa, allora, caratterizzerebbe il suddetto paradigma indoeuropeo? Mi richiamerò, in breve – cioè in modo necessariamente approssimativo – agli studi di Georges Dumézil e Marija Gimbutas, che in molti punti concordano:
1. Secondo l’ideologia trifunzionale (che ritroviamo ovunque, dal mondo vedico alla Politeia platonica, fino all’esempio ‘feudale’ analizzato da Duby) le società indoeuropee – il cui modello si è imposto nell’Europa continentale tra il 4300 e il 2800 a.C. tramite una serie di violente invasioni – sono caratterizzate da una forte impostazione gerarchica che prevede la distinzione in tre caste fondamentali: quelle dei guerrieri e dei sacerdoti e, sul gradino più basso, un ceto di mercanti e lavoratori (agricoltori, artigiani e quant’altro).
2. Nella società indoeuropea il potere politico ha carattere eminentemente teologico (è esercitato dalla casta sacerdotale) ed è immediatamente connesso all’apparato militare dell’ordine guerriero. Niente di diverso, quindi, da quanto avviene nel Califfato di al-Baghdādī o nell’Iran degli āyatollāh. Il fatto che l’Europa non sia più ostaggio del potere temporale del papato, indica soltanto che il Vecchio Continente si trova ad uno stadio successivo dello sviluppo storico in cui, anziché l’autorità religiosa, è il politico ad aver assunto il ruolo di sacerdote moderno nel contesto di una società secolarizzata.
3. Altro carattere del paradigma indoeuropeo è la sua struttura eminentemente patriarcale, in cui il patto militare tra guerrieri e sacerdoti ha permesso venisse sconfitto e bellicosamente soppiantato l’ordinamento equisessuale e egualitario dei villaggi neolitici, segnando, in Europa, il passaggio all’età del bronzo e determinando la fine cruenta delle civiltà della Valle dell’Indo di origine dravidica (basti pensare agli esempi di Harappa o di Mohenjo-Daro).
4. Nel modello patriarcale indoeuropeo, come ha ampiamente mostrato entre autres Mircea Eliade, prevalgono divinità celesti fecondatrici, cioè appunto maschili – basti pensare al ruolo di Urano nel Mito olimpico della creazione, o di An – suo equivalente mesopotamico – “l’alto Cielo” che “consumò il matrimonio con la vasta Terra” e “depositò nel suo grembo il seme degli eroi”.
5. Ecco allora che la figura paterna del dio monoteista non è che l’ultima e più estrema forma in cui il modello indoeuropeo – patriarcale e militare – ha riformulato il proprio ordine teologico e gerarchico.
Da quanto (pur per sommi capi) argomentato emerge in tutta chiarezza l’istanza violenta, cioè essenzialmente militare, legata al monoteismo in quanto momento apicale del modello guerriero indoeuropeo fondato sull’obbedienza a divinità maschili celesti e sull’amministrazione teologica del potere da parte dell’autorità politica, sia essa immediatamente religiosa o secolarizzata, cioè anche presidenziale o parlamentare. Ha visto bene, il vignettista di Charlie Hebdo: alla radice dell’epocale catastrofe che stiamo attraversando c’è il nesso teologico tra politica e violenza che caratterizza il modello indoeuropeo su cui la nostra stessa società si fonda e di cui la follia monoteista – cristiana, ebraica o islamica che sia – non è che un’espressione culminante metafisicamente coerente con la volontà di potenza che presiede al dispiegarsi globale della tecnica – militare, multimediale, finanziaria – contemporanea. Anziché abbandonarsi ai soliti proclami buonisti su una possibile convivenza pacifica tra le tre religioni del libro, è ora d’incominciare a dire che ogni monoteismo è come tale il primo degli ostacoli contro la pace tra uomini e tra dei.