Il 2016 è un anno importante per Barack Obama. E’ l’anno in cui il presidente termina il suo secondo mandato e torna a essere un privato cittadino. Obama è ancora piuttosto giovane – compirà 55 anni il 4 agosto – e tutto lascia presagire che la sua vita pubblica continuerà in altre forme e modi. Ma il cuore pulsante della sua carriera politica si conclude qui, dopo otto anni di presidenza, e una prima considerazione della sua eredità è già possibile e necessaria.
Nell’insieme, quella che Obama lascia è un’America più progressista di quella che lui ha preso in carico nel 2009. Le sue politiche sono state – non ci voleva molto – più liberal di quelle del suo predecessore George W. Bush. Di più. Obama ha accompagnato, ed è stato in qualche modo il prodotto, di uno spostamento a sinistra dell’intera società americana. Otto anni dopo, è anzi possibile vedere i giorni del novembre 2008 – quelli dello “Yes We Can” e del movimento che portò il primo afro-americano alla Casa Bianca – come un segnale di questo spostamento. Se Ronald Reagan è stato il simbolo della “rivoluzione conservatrice” cresciuta negli Stati Uniti a partire dagli anni Settanta, Obama è il presidente che incarna un’onda progressista che si allungherà con ogni probabilità ben oltre il 2016.
Economia, lo Stato è tornato a intervenire – Non c’è, negli ultimi decenni di storia americana, un presidente che come Obama abbia interpretato il ruolo interventista dello Stato in economia. Durante il suo primo mandato, il presidente ha fatto passare lo stimolo economico più massiccio di ogni tempo; la riforma sanitaria; una legge per la regolamentazione di Wall Street; il salvataggio da 20 miliardi dell’industria automobilistica. Poi sono venuti la decisione di aumentare i minimi salariali di chi lavora per il governo federale; la regolamentazione da parte della Food and Drug Administration della vendita del tabacco; l’autorizzazione data all’Agenzia di Protezione Ambientale di limitare le emissioni inquinanti; l’abbandono del progetto della Keystone XL Pipeline. La politica keynesiana di questa amministrazione non ha incontrato particolare opposizione nell’opinione pubblica e promette di continuare se il prossimo presidente sarà democratico. I tre attuali candidati democratici sono infatti a favore dell’aumento del peso fiscale per i più ricchi, per irrobustire la regolamentazione dell’industria finanziaria, per allargare le tutele per i lavoratori – con il caso curioso di Hillary Clinton che oggi si scopre nemica della Trans-Pacific Partnership che un tempo esaltava.
Dopo unioni gay, la nuova frontiera sono i diritti transgender – Sono due temi in cui l’azione di governo di Obama ha lasciato un segno duraturo – in senso particolarmente progressista. La sentenza della Corte Suprema sui matrimoni gay del 26 giugno 2015 corona un processo durato decenni. In questo Obama è stato capace di seguire la maturazione dell’opinione pubblica. Prima della sentenza della Corte, la sua amministrazione ha concesso i benefici sociali ai partner degli impiegati federali gay e lesbiche e deciso di non difendere più il “Defense of Marriage Act”. Dopo essersi dichiarato, ai tempi della campagna del 2008, favorevole alle unioni civili, il presidente stesso ha ben presto abbracciato la causa dei matrimoni gay. Oggi che l’eguaglianza omosessuale è per molti versi accettata (significativo che nessun candidato repubblicano alla presidenza ne accenni), la nuova frontiera sono i diritti trasgender. Anche qui l’amministrazione segue le trasformazioni nell’opinione pubblica: il Pentagono ha annunciato di aprire all’arruolamento di persone trasgender proprio mentre tre quarti degli americani si dichiarano a favore di una legge anti-discriminazione per i trasgender.
Immigrazione, la riforma non è passata. Ma i dem intercetteranno il voto ispanico – Quanto alla riforma dell’immigrazione, Obama non è riuscito a farla approvare dal Congresso. In compenso, il presidente nel novembre 2014 ha imposto un ordine esecutivo con il quale ha “salvato” dalla deportazione circa cinque milioni di migranti che negli Stati Uniti lavorano, studiano, vivono. Il tema è rimasto in cima alla sua agenda, tanto che lo scorso 15 dicembre, in occasione di una cerimonia di naturalizzazione per 31 persone, il presidente ha detto: “C’è qualcosa di unico in America. Noi non soltanto accogliamo gli immigrati… noi siamo un popolo di immigrati. E’ ciò che siamo… è il cuore del nostro carattere nazionale”.
Le parole di Obama hanno acquistato un significato particolare all’indomani dell’attacco islamico di San Bernardino e del diffondersi di nuovi sentimenti anti-islamici; ma l’atteggiamento simpatetico in tema di immigrazione ha conseguenze importanti sulla futura mappa politica americana. I democratici sono, con ogni probabilità, destinati a intercettare gran parte del voto di alcuni gruppi, in particolare gli ispanici, in rapida espansione demografica ed economica. Il processo, proprio perché legato a trend demografici di lungo periodo, promette di andare ben al di là della campagna elettorale del 2016 e del prossimo inquilino della Casa Bianca.
Politica estera, gli Usa non sono più i “gendarmi” del mondo – E’ forse l’ambito di governo dove l’azione di Obama è stata meno efficace. Arrivato alla presidenza sull’onda del fallimento della guerra in Iraq, il presidente lascia la Casa Bianca senza essere riuscito a districare l’America dai lacci delle sue guerre. Le truppe Usa resteranno in Afghanistan ben oltre il 2017; l’Iraq appare, insieme alla Siria, un gigantesco teatro di guerra, tanto che Casa Bianca e Pentagono stanno considerando l’intervento di truppe di terra. Nel complesso, la presidenza Obama rappresenta probabilmente un arretramento della presenza e potenza americane nel mondo. Come fanno notare i repubblicani, Obama non è stato capace di spegnere l’incendio che ha avvolto gran parte del mondo arabo; non ha contribuito al processo di pace israelo-palestinese; ha subìto l’iniziativa russa – in Ucraina e Siria – e quella economica e politica, soprattutto in Africa, della Cina.
La cosa potrebbe però essere vista anche da un’altra prospettiva. Con l’amministrazione Obama, i sussulti di democrazia che si sono manifestati nel mondo arabo non sono stati repressi ma anzi incentivati; il presidente, sin dallo storico discorso all’università del Cairo, ha evitato con cura il pericolo di una contrapposizione Islam/Occidente; l’Iran è stato riconquistato alla politica e riconosciuto come potenza regionale; soprattutto, Obama ha imposto quella che lui stesso ha definito, durante una visita a Manila, la “dottrina Obama”: una politica estera “cauta, progressiva”, che vede l’intervento militare come “l’ultima spiaggia”. Questo approccio, ha spiegato il presidente, può non essere “sexy”, ma riconosce la complessità del mondo, la fine del ruolo “da gendarme” dell’America. Utilizzando una metafora tratta dal baseball, Obama ha spiegato che i progressi in politica estera sono “dei singoli e dei doppi… ciò che ogni tanto ci fa fare un home run”.
Addio centristi, il Partito Democratico si scopre più progressista – La presidenza Obama segna una vera e propria rivoluzione nel Partito democratico. I democratici “centristi” sono stati praticamente cancellati dal panorama politico americano. Chi ricorda oggi gente come Max Baucus, Mary Landrieu, Joe Lieberman? I senatori democratici più influenti si chiamano Elizabeth Warren e Bernie Sanders – non a caso quest’ultimo anche candidato alla presidenza – e il sindaco di New York è Bill de Blasio: tutti rappresentanti di un progressismo che va ben oltre il liberalismo centrista di Bill Clinton. Uno dei pilastri dell’ala moderata e sudista dei democratici, Al Gore, è oggi un leader ambientalista e i due movimenti che hanno più segnato la cultura del partito sono Occupy Wall Street e Black Lives Matter, entrambi caratterizzati da una radicale critica dell’esistente. Non è un caso che le piattaforme dei tre candidati democratici alla presidenza, Hillary Clinton, Bernie Sanders e Martin O’Malley, siano orientate decisamente a sinistra. Senza scomodare il “socialista” Sanders, basta guardare alle proposte della Clinton, dall’aspettativa pagata per motivi di famiglia all’aumento dei minimi salariali all’asilo garantito per tutti alla “fine della carcerazione di massa” (che proprio il marito inaugurò) per capire quanto i due mandati di Obama abbiano spostato a sinistra gli equilibri del partito.
Armi, decreti esecutivi ma niente legge sul gun control: il “rimpianto più grande” – Sono le due aree che, per motivi diversi, hanno più scontentato l’anima democratica d’America. Sulle armi, Obama non è riuscito a far approvare una legge che, dal massacro della Sandy Hook Elementary School, è diventata una sua priorità. Le stragi sono continuate – l’ultima, quella di San Bernardino, con 14 morti – la conta dei morti è tragica normalità – tre al giorno sulle strade americane – la maggioranza degli americani resta ferma nella difesa del Secondo Emendamento. Ora il presidente punta su un “ordine esecutivo” per inasprire i controlli e limitare vendita e possesso. Resta comunque che la National Rifle Association, che spese 10 milioni per impedire la vittoria di Obama nel 2008, e l’azione congiunta di repubblicani e molti democratici, hanno impedito che una riforma complessiva fosse approvata dal Congresso. Non aver fatto approvare una legge sul “gun control” resta, a detta di Obama stesso, “il rimpianto più grosso della mia presidenza”.
Libertà civili, non si ferma l’involuzione post 11 settembre – Discorso simile sulla questione delle libertà civili. Obama non è riuscito a fermare l’involuzione autoritaria che, dall’11 settembre, ha segnato il governo Usa. Guantanamo è stato progressivamente svuotato, ma non chiuso; la promessa di una riforma della National Security Agency è stata tradita e la più potente agenzia di sorveglianza al mondo continua a raccogliere i metadati degli americani; l’amministrazione Obama si è mostrata inflessibile nel perseguire Edward Snowden e i whistleblower, i responsabili di “fughe di notizie” (ne ha messi sotto accusa otto con l’Espionage Act del 1917, più del doppio di tutte le amministrazioni precedenti messe insieme); infine, sotto il governo di Obama sono andati avanti gli assassini “mirati” con i droni, soprattutto in Afghanistan, Yemen e Pakistan.
I millennials lo certificano: “Paese spostato a sinistra” – Una politica è anche il risultato di dinamiche storiche più vaste, e i due mandati di Obama non fanno eccezione. Se si vanno a leggere i numeri dei sondaggi di questi anni – per esempio quelli del Pew Research Center – si noterà che gli americani tra i 18 e i 35 anni presentano una visione del mondo e della società più aperta e progressiva rispetto al passato. Crescono, tra i più giovani, le percentuali di chi vede con favore il sostegno statale all’economia; largo appoggio hanno i diritti gay e quelli dei migranti; generalmente negativo è il giudizio su come la polizia ha gestito “le questioni razziali”; ed è proprio grazie ai millennials che la percentuale degli americani che chiede la promozione dei “valori tradizionali” non è mai stata così bassa del 1993. L’eredità più importante che Obama lascia al suo successore è quindi qualcosa che lui non ha deciso, ma soltanto interpretato: uno spostamento del Paese a sinistra, di cui i suoi otto anni di governo sono forse soltanto la manifestazione iniziale.