Una nuova svalutazione dello yuan, la notizia del presunto test nucleare nella Corea del Nord e i soliti timori per le prospettive dell’economia cinese, rafforzati dal taglio delle stime di crescita mondiali da parte della Banca Mondiale. Un combinato disposto che ha determinato l’ennesima giornata di passione per i mercati asiatici: le borse cinesi di Shanghai e Shenzen sono rimaste aperte, nella notte italiana, per soli trenta minuti, arrivando a perdere oltre il 7%. A quel punto è scattato, per la seconda volta in quattro giorni, il meccanismo di interruzione automatica delle contrattazioni (circuit breaker) messo in campo dalle autorità per cercare di contenere la volatilità. Lo stesso era accaduto lunedì, mentre mercoledì il governo cinese aveva tentato di sostenere i listini immettendo oltre 20 miliardi di dollari di liquidità. Giù di conseguenza tutte le borse asiatiche: Tokyo ha perso il 2,3% finale, Hong Kong il 2,7%. Di fronte all’ulteriore tonfo le borse europee, negative anche mercoledì, hanno aperto inevitabilmente la seduta in forte calo. Nel corso della giornata le perdite si sono ridotte: Piazza Affari ha chiuso a -1,14% e la maglia nera è andata a Francoforte, con un -2,29%. Pesanti sia Fiat Chrysler sia Ferrari, che hanno lasciato sul terreno più del 3,2%.

Intanto la mossa di chiudere le contrattazioni ha provocato le critiche di molti analisti secondo i quali la Cina avrebbe perso il controllo della situazione. Tanto che nel pomeriggio le autorità cinesi hanno deciso di archiviare il meccanismo di sospensione automatica degli scambi. Ma al tempo stesso, sempre nel tentativo di ridurre la volatilità, hanno rinnovato le restrizioni sulla vendita di azioni per i grandi soci dei gruppi quotati che sarebbero scadute l’8 gennaio: a partire dal 9 i grandi investitori potranno vendere sul mercato non più dell’1% in tre mesi, ha annunciato in via ufficiale con un comunicato la China Securities Regulatory Commission, la Consob cinese. La regola non si applica alle transazioni ai blocchi e agli accordi per il passaggio di mano di partecipazioni.

Preoccupa i mercati anche il fatto che la Banca centrale cinese abbia per l’ottava volta svalutato la moneta nei confronti del dollaro, realizzando il maggior calo dall’agosto scorso. La People’s bank of China ha infatti annunciato di aver deprezzato lo yuan dello 0,51%, portandolo a quota 6.5656. Un intervento mirato a spingere le esportazioni, ma che fa crescere i rischi per le società indebitate in dollari e aumenta i timori che lo stato dell’economia del Paese sia peggiore del previsto. Mercoledì la Banca Mondiale ha rivisto al ribasso le stime di crescita per il Paese nel 2016, portandole al 6,7% dal precedente 7%. Una revisione che pesa sull’andamento dell’economia globale, prevista ora in rialzo solo del 2,9% contro il 3,3% precedente. In un comunicato pubblicato sul suo sito, la banca cinese ha tentato di tranquillizzare gli investitori scrivendo che la Cina non ha bisogno di una ulteriore “svalutazione competitiva” della moneta in quanto “sebbene la crescita dell’export si è rallentata nel 2015 la quota del paese sulle esportazioni mondiali è cresciuta ancora”. Di conseguenza “non ci sono motivi per un nuovo deprezzamento dello yuan che resta una valuta forte”.

Il mese scorso poi le riserve cinesi in valuta estera sono diminuite a un ritmo record, 108 miliardi di dollari, portando la flessione dell’intero 2015 a 513 miliardi di dollari. Ne rimangono 3.300. Il dato suggerisce un’accelerazione del deflusso di capitali, che potrebbe però dipendere anche dalla maggiore mobilità concessa dalle autorità al denaro nel 2015. Michael Every, capo delle ricerche di mercato per Rabobank nella regione Asia-Pacifico, ha ricordato che la Cina è riuscita a garantire allo yuan l’ingresso nel paniere principale delle valute globali del Fmi. Secondo Every i politici lasceranno defluire capitali dal colosso asiatico per mettere un argine al rallentamento dell’economia e ai rischi deflazionistici.

Nonostante questo quadro il prezzo del petrolio continua a calare, sia per le difficoltà cinesi sia perché i mercati prevedono che anche nei prossimi mesi, con il riavvio su larga scala della produzione iraniana, permanga un eccesso di offerta. Il Wti e il Brent sono arretrati fino ai 32 dollari al barile ma nell’ultima ora di contrattazioni i ribassi sono rientrati e le quotazioni sono tornate in territorio 34 dollari. Il petrolio del paniere Opec è scivolato poi sotto i 30 dollari al barile per la prima volta dal 5 aprile del 2004. Il crollo dei mercati ridà invece fiato al prezzo dell’oro, tradizionale bene rifugio, finito in affanno negli ultimi mesi per via del rialzo dei tassi Fed e dell’apprezzamento del dollaro: il valore è salito dello 0,8%, sopra la soglia dei 1100 dollari l’oncia.

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