Cultura

Renzi, Grillo e Berlusconi: cosa resta di Mussolini in tic, vizi e vocabolario della politica. “L’Italia? Non si è mai tolta la camicia nera”

Il nuovo libro di Tommaso Cerno, "A noi!", è un'inchiesta storica su biografie e stile di comunicazione dei leader di ieri e di oggi: dal Duce a Craxi fino al premier. Così si scopre che non solo il Paese non ha fa mai fatto i conti con il fascismo. Ma anche che mutano i sistemi (dittature, monopoli, democrazie più o meno partecipate) ma non i modi di gestire il potere e il rapporto con i cittadini. E la colpa non è tutta di chi comanda

Facciamo un gioco. Chi è questo? “Conquista l’uditorio criticando con frasi brevi e forti il gruppo parlamentare; sostiene che non c’è tempo per la mediazione e che le scelte devono essere radicali e immediate”. E questo? “E’ un tiranno, forte del consenso che gli viene tributato: per quanto capace e fortunato, ha un potere limitato che lo costringe a circondarsi di amici e luogotenenti che gli garantiscano quel consenso”. E di chi parliamo qui? “In ogni pausa perfetta di un ritmo calcolato per imprigionare l’attenzione del pubblico, gli occhi spiritati del leader scrutano quella massa rapita dal suo carisma in cerca di una reazione che puntualmente arriva. La prosa a effetto entusiasma la folla: s’infiamma quando gli avversari, i nemici, vengono denigrati o insultati”. E qui? “Bisogna credergli, perché lui è il nuovo taumaturgo del Belpaese. Non può sbagliare, gli italiani sono al suo fianco (…). Per chi non sta al suo passo, il futuro è uno solo: l’oblio”. Il primo è Benito Mussolini, il secondo Bettino Craxi, il terzo Beppe Grillo, il quarto Matteo Renzi.

Il fascismo in sé e il fascismo in me
E’ un gioco, ma introduce una questione serissima: gli italiani e i conti con la Storia. Di più: i conti col fascismo. Settant’anni dopo ci siamo davvero liberati dei tic, delle tossine, dell’atteggiamento di un popolo che prima ha acclamato una dittatura e poi a parole l’ha rifiutata e abbandonata, affidandosi ad altri “regimi dolci” come i cinquant’anni di Dc e i venti di B? Davvero le brutture del Ventennio sono archiviate per sempre, compreso il marcio che passava da corruzione, mega-conflitti d’interessi, intrighi sessuali, omicidi? La comunicazione e il modo di fare politica (il trasformismo, i cortigiani, i tradimenti, le epurazioni) sono così diverse oggi rispetto a quel passato lontano quasi un secolo? Secondo Tommaso Cerno no. E nel suo A noi! (308 pagg., Rizzoli) l’ex cronista dell’Espresso ora direttore del Messaggero Veneto lo dichiara subito, come se con un battito di mani volesse svegliare immediatamente il lettore. Riga 8: “L’Italia è nata con la camicia nera. Proprio così, fasciata nel sacco amniotico del fascismo, da cui cerca a fatica di liberarsi da settant’anni senza riuscirci davvero”. E vale per la classe politica – leader eletti e non e dittatori – e vale per i cittadini che nel corso degli anni hanno indossato maschere sempre nuove, appena cambiava il tempo.

Il Paese dei rottamatori
Il lavoro di Cerno – che tiene insieme ricerca storica e racconto – è la base scientifica con la quale dovrebbe lavorare uno psicanalista se solo l’Italia non rifiutasse la terapia. Da ormai cento anni: da quando, cioè, Mussolini – il “rottamatore”, l’uomo nuovo, l’anti-sistema della sua epoca – ha stretto un “legame con il Paese molto più radicato, profondo, osmotico di quanto si pensi. Un legame possibile solo quando c’è un collante. E questo collante viene proprio dall’essenza dell’italiano”. L’indagine di Cerno non torna sulle vicende deprimenti dei trasformisti di Stato, i burocrati che si riciclarono senza che nessuno battesse ciglio dal vecchio regime alla nuova Repubblica democratica. L’icona resta quella del giudice Gaetano Azzariti: presidente del tribunale della razza fino al 1943, ministro della Giustizia con Badoglio e presidente della Corte costituzionale su nomina del presidente Gronchi negli anni Cinquanta.

Piazze, slogan, ballerine, dossieraggi
Piuttosto A noi! disegna fili rossi che collegano il balcone di Palazzo Venezia agli hashtag di Renzi, la piazza berciante di Mussolini con quella virtuale aizzata da Grillo, le corti di nani, ballerine e amanti di Berlusconi e Craxi con quelle altrettanto affollate del Duce del fascismo. Con linguaggio netto e asciutto, A noi! è costruito su uno schema quasi documentaristico. Così il ritmo risulta serrato e si riconosce lo stile di racconto della Grande Storia di Rai3 (Cerno è stato conduttore di D-Day, programma di RaiStoria e dedica un tributo a Luigi Bizzarri e Enzo Antonio Cicchino, tra gli autori principali). Si “scopre” che la strategia della tensione era cominciata già nel 1928, con una bomba a Milano. E poi ancora i dossier e le delazioni, a volte finte e a volte vere, per la “peggiore” delle accuse, quella di omosessualità. Mussolini li userà per togliere di mezzo tra gli altri i collaboratori che si erano messi in testa di ripulire il partito da malaffare e corruzione. Mentre ai giorni nostri ci sono il “metodo Boffo”, ma anche le diffamazioni che secondo i magistrati Nicola Cosentino – ora a processo – fece preparare contro Stefano Caldoro, suo rivale dentro Forza Italia. Il maschilismo, poi: Cerno prende ad esempio la ciclista Alfonsina Strada e l’astronauta Samantha Cristoforetti, ma la lista sarebbe più lunga come ricostruisce un libro di Filippo Maria Battaglia).

Il teatrino della politica e i partiti personali
Tutti i leader protagonisti del libro di Cerno – da Mussolini a Craxi, da Salvini a Grillo fino a Renzi – hanno un punto in comune: si sono presentati al popolo come il nuovo. Quello è rottamatore, l’altro è l’anti-sistema, quell’altro ancora giura che schifa il “teatrino della politica” e ancora e ancora. Eppure tutti finiranno per assumere i meccanismi dei sistemi precedenti al loro arrivo. Renzi arriva a Palazzo Chigi defenestrando il compagno di partito Enrico Letta con un voto non del Parlamento, ma della direzione del Pd. Proprio come faceva la Dc. E’ lo stesso modo in cui cadde il Duce: non in guerra, non con l’azione di opposizioni o resistenti. Adolf Hitler è scomparso dalla Storia mentre Berlino veniva rasa al suolo dai bombardamenti, chiuso nel bunker della Cancelleria, 20 metri sotto terra, dove ingoierà il cianuro, sparandosi un colpo di pistola e dando ordine di bruciare il suo corpo. Mussolini invece esce di scena con un voto dentro al Gran Consiglio, 19 sì 8 no e un astenuto al termine di una riunione con pause, sigarette, lacrime, litigate. Così banale che Mussolini concesse quella riunione convinto che avrebbe avuto un “reincarico”, in pieno stile Prima Repubblica. Oppure Grillo: “Nonostante i buoni risultati elettorali, la mancanza di proposte organiche ai problemi concreti e il verticismo lo rendono un esperimento politico non certo migliore dei vari partiti personali sorti durante la Seconda Repubblica” scrive Cerno. O Craxi: “Come Mussolini prima e Berlusconi poi, non riesce a gestire il potere andando oltre il mero mantenimento dello stesso, finendo così per essere più un capo che uno statista”. E come durante il fascismo, “la selezione della classe dirigente non è più basata su una forma – per quanto lottizzata – di meritocrazia, ma sul rapporto di fiducia e fedeltà al capo”. Berlusconi, infine. Dalle sue canzoncine di propaganda all’espulsione dalla Rai di Biagi, Santoro e Luttazzi (e all’inserimento di fedelissimi come Minzolini), dall’uso del terremoto dell’Aquila a fini propagandistici (proprio come fece il Duce con un sisma in Irpinia nel 1930) al continuo richiamo dell’uomo “del popolo” e però innamorato del palco inteso come palcoscenico, che fa in privato quello che la sua parte politica critica in pubblico. Tutti punti in comune con Mussolini, sulla cui figura peraltro Berlusconi non ha risparmiato svarioni.

Il morbo incurabile dell’Uomo della Provvidenza
Ma perché gli italiani si affidano sempre a leader che sembrano modulare in modo diverso lo stesso spartito? “Agli italiani l’uomo forte piace, ne hanno sempre subito il fascino – si legge nel libro di Cerno – Da un lato offre sicurezza e risposte, dall’altro garantisce la deresponsabilizzazione delle masse”. Corrado Augias, in un libro di qualche anno fa, lo aveva chiamato Il disagio della libertà (176 pagg, Rizzoli). Agli italiani, scriveva, piace avere un padrone. “Con la libertà vera, faticosa, fatta di coscienza e impegno sembriamo trovarci a disagio, pronti a spogliarcene in favore di un qualunque Uomo della Provvidenza”. Augias faceva molte ipotesi sul perché. C’entra forse la predilezione per la “servitù volontaria” di Etienne de la Boetie per cui si preferiscono “i comodi del cortigiano alle libertà del cittadino”, c’entra forse il “familismo amorale” di Banfield per cui l’etica fuori dal cerchio familiare scompare. C’entra che spesso la libertà qui diventa arbitrio, licenza. C’entra forse il cattolicesimo che è protagonista nella società italiana da secoli e dà l’abitudine a affidarsi a entità extraterrene e a ricevere comunque un perdono. “Il fascismo in Italia è un’indicazione di infanzia – scriveva Piero Gobetti – perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’entusiasmo. Si può ragionare del ministero Mussolini come di un fatto d’ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di più, è stato l’autobiografia della Nazione”.

Dalla parte giusta e non si muore
Le conclusioni di Cerno non vanno molto lontano da qui: il fascismo fu “ipocrisia, faciloneria, fu la lente di ingrandimento di un Paese pronto a stare dalla parte di chi vince, dalla parte di chi comanda, dalla parte di chi grida più forte. Proprio com’è oggi”. Sì, certo, il fascismo è sopravvissuto anche dopo la notte del 25 luglio del 1943, negli apparati dello Stato, della polizia, della diplomazia, della burocrazia. Ma preoccupa di più il fatto che “una vera cesura non ci fu mai nemmeno nella vita interiore, diciamo così, degli italiani” perché siamo “fascisti tra i fascisti, democratici fra i democratici, bigotti fra i bigotti. Siamo un popolo di conformisti“.