Era un afoso giugno del 1975 quando arrivai a Torino, nell’allora Centro Einaudi dietro corso Giulio Cesare, per consegnare nelle mani dell’amico Valerio Zanone le mie dimissioni da un Partito Liberale nel cui ultimo congresso gli scherani del boss Giovanni Malagodi avevano passato pacchi di voti al golpista onirico Edgardo Sogno. Un viaggio per me necessario, non volendo dimettermi a Genova, nella sezione dell’onorevole Alfredo Biondi, quello che in privato (e dopo qualche bicchiere di whisky) amava definirsi “liberale sopra l’ombelico e fascista sotto”.
Poco tempo dopo ricevetti una lettera datata 7 luglio, in cui Valerio manifestava la sua amarezza per il nostro colloquio, definendosi “il maggiore esperto che oggi esiste in Italia, e quindi nel mondo di secessioni dal P.L.I.”. Poi mi annunciava un documento che avrebbe presentato al Consiglio Nazionale per quanto definiva “un confronto risolutivo”: “Spero che leggendolo troverai, insieme alle ragioni di chi abbandona, anche qualche giustificazione per quelli che restano”. Ma Zanone sarebbe sempre restato, anche quando il Partito Liberale era scomparso. In primo luogo per ragioni sentimentali, che nascevano dall’identificazione fra una tradizione culturale e la propria città. Avrebbe poi traslocato a Roma, campo d’azione inevitabile per un innamorato cronico della politica quale lui era, ma la Mole gli sarebbe restata nelle fibre; come – pur dopo decenni – la parlata sibilata/strascicata del gianduia. Un esule nella capitale, dove tempo fa lo avevo incontrato a un convegno trovandolo d’umore amarissimo, nella condizione di “messo da parte” della Seconda Repubblica. Lo offendeva la spregiudicatezza dei riciclati e con “i piedi al caldo”, mentre salutandomi saliva su una scalcinata utilitaria.
Ci trovavamo nella romana via Cavour, quasi un involontario riferimento a quella torinesità di cui era intriso. Ricordo i resoconti che mi aveva fatto di una ricerca sul padre dell’unità nazionale Camillo Benso e di una sua lettera a una ignota moglie di un amico, cui manifestava il peso psicologico quasi insopportabile nel rush finale del 1859 e poi concludeva, grosso modo: “ma se sarete ricca d’amore per me come ieri sera… ce la faremo”. L’essenza di una città: perbenista e sensuale, ma sempre sottotraccia. Come ci avrebbe raccontato l’impareggiabile duo Fruttero&Lucentini. Qui Valerio aveva le sue radici, per ragioni biografiche inestirpabili; affettive: impiegato poco più che ragazzo nel Pli cittadino venne notato da due costruttori locali – i fratelli Guerrini – che, intuendone le qualità, ne favorirono gli studi e l’entrata in politica, sino alla vittoria nelle elezioni regionali del 1970. Trampolino di lancio della presunta carriera di rifondatore del liberalismo sganciandolo dai legami con gli interessi più retrivi del partito malagodiano (“affittato alla Confindustria”, disse taluno. In effetti appiattito sulla “Piccola Proprietà Edilizia”). Lo accreditavano al compito i suoi costanti riferimenti sull’asse Luigi Einaudi-Piero Gobetti; con relativa apertura al mondo del lavoro e perfino alla sinistra operaia. Gobettianamente: mi raccontò di una lettera di Antonio Gramsci, che aveva scovato negli archivi, indirizzata a Umberto Terracini; che chiedeva chi fosse quel giovane critico teatrale dell’Ordine Nuovo (“non è uno dei nostri… è un liberale”, la risposta del Gramsci).
Ma Valerio non rifondò il liberalismo, anche perché gli mancava la necessaria cattiveria/determinazione del vero capo (“ci manca un leader” diceva lui stesso). Sicché, con un punta di civetteria, era solito dichiarare che la voce del suo curriculum cui teneva di più era il saggio su “Il Liberalismo moderno” scritto per l’editore – appunto, torinese – Utet, in un volume curato da un intellettuale torinesissimo, quale Luigi Firpo e promosso da Norberto Bobbio (“Storia delle idee politiche economiche e sociali”, volume sesto).
Dunque una persona troppo perbene e troppo sensibile per non rischiare la messa in un angolo da parte di chi ha ben altro pelo sullo stomaco. Un conservatore che guardava a sinistra, mentre l’etichetta “liberale” diventava paravento per bieche operazioni reazionarie, che mai avrebbe avvallato.
Insomma, un galantuomo quello che se ne è andato. Verrebbe da dire, il sopravvissuto di una specie che sembra essersi persa.