Mi par ieri, ma è passato quasi un decennio – era il 2007 – da quando ho avuto modo di ascoltare Pierre Boulez alla Filarmonica di Berlino. Il programma era allettante: i Cinque pezzi Op. 16 di Schönberg, i Tre pezzi Op. 6 di Alban Berg, ed infine i Sei pezzi Op. 6 di Webern – tre composizioni che, nel loro insieme, cioè nella fitta serie di rimandi che le caratterizza, costituiscono un vero e proprio canone della Seconda Scuola di Vienna così come essa andava allora consolidandosi, prima dell’elaborazione definitiva del metodo dodecafonico (1923), a partire dalle lezioni tenute da Schönberg tra il 1903 e il 1911 e culminate con la pubblicazione della Harmonielehre.
Proprio al finale del Manuale di armonia Schönberg consegna l’ipotesi di una Klangfarbenmelodie, la melodia di timbri sulla cui possibilità (almeno stando ai diari della moglie Alma) Gustav Mahler – che pure nella Nona e nella Decima sembra a tratti anticipare quella stessa intuizione – si era dimostrato scettico.
Nella proposta di Schönberg la Klangfarbenmelodie, una sorta di pointillisme musicale, organizza la relazione tra i timbri in maniera tale che essi, nel loro reciproco rapporto, esprimano una logica propria, equivalente “al tipo di logica inerente alle melodie basate sull’altezza”.
Un’applicazione diretta di questo principio è riscontrabile nel terzo dei Cinque pezzi Op. 16, intitolato esplicitamente Farben, Colori (ma in tedesco il rimando a Klangenfarben, timbri, risulta immediato). Ed è appunto derivandoli direttamente dai Cinque pezzi di Schönberg che Webern sviluppa i Sei pezzi Op. 6 (1909), elaborando una sorta di ‛pittura sonora’ che, in modo ancor più estremo di quanto accadeva nel maestro, non è più circoscrivibile alla struttura dei rapporti intervallari – cioè alla dimensione dell’altezza – ma aggiunge, quali parametri fondamentali, organizzati in modo interdipendente e sistematico, quelle del timbro, dell’intensità e del ritmo. Si veda, nella fattispecie, come l’“oppressione minacciosa” del Quarto pezzo di Schönberg ritorni nel Secondo e nel Quarto pezzo di Webern, anche qui – come in Berg – “con un dispiegamento mahleriano di mezzi sonori”: su tutto il ruolo, accentuatissimo, delle percussioni e l’“uso solistico, deformato, di strumenti come il trombone o il basso-tuba” (Guido Salvetti).
Quanto ai Tre pezzi di Berg, opera di apocalittica drammaticità, che l’autore ultimò proprio mentre dilagava il primo conflitto mondiale (il terzo, Reigen, venne completato nell’agosto del ’15), il riferimento ai Cinque pezzi è reso esplicito fin dalla lettera di dedica che il compositore inviò al maestro. Vide bene Adorno quando, ad una prima occhiata sulla partitura, commentò: “Dev’essere come se si eseguissero insieme i Pezzi per orchestra di Schönberg e la Nona Sinfonia di Mahler”.
Ecco allora che in quel concerto, che Boulez condusse magistralmente, con quell’“unbestechlicher Scharfsinn”, quell’“infallibile sottigliezza” per cui i Berliner hanno voluto ricordarlo, erano presenti, in straordinaria coerenza, alcuni capisaldi del percorso musicale rispetto al quale il Boulez compositore ha saputo essere ad un tempo erede e innovatore. In poche battute, potremmo anzi dire che la sua poetica, basata, almeno fino ai primi Sessanta, sul principio della serialità integrale, si sia caratterizzata inizialmente per il tentativo di serializzare – cioè di ordinare in successioni prestabilite, dette appunto serie – ogni aspetto fondamentale del suono – non solo le altezze, ma anche le durate, le dinamiche, i timbri, le modalità di attacco ecc. –, coerentizzando ed estendendo a regola sistemica, cioè non passibile d’eccezione, il pointillisme ‘minimalista’ weberiano già evidente nei citati Sei pezzi Op. 6.
Per capire bene di che si tratti, è forse utile recuperare un paragone pittorico avanzato dallo stesso Boulez nel suo Il paese fertile. Paul Klee e la musica: “Mentre Klee delinea le superfici con testure di piccoli punti di varia densità che ne fanno apparire le diverse tipologie, Webern procede nello stesso modo in musica. Ad esempio, per esprimere la durata di una nota, non la tiene, ma la fa apparire mediante note staccate più o meno ravvicinate, ossia più o meno rapide o lente. / In universi totalmente diversi, Klee riguardo allo spazio, Webern riguardo al tempo, hanno entrambi trovato la soluzione dei piccoli impulsi, impulsi colorati in pittura, ritmici in musica”.
È proprio da Webern, infatti – di cui Boulez editò tutte le composizioni (fatti salvi alcuni inediti) –, che bisogna muovere per comprendere la tecnica compositiva seriale. Schönberg, che pure aveva realizzato una delle più grandi rivoluzioni che mai abbiano sconvolto il linguaggio musicale, a detta del compositore francese – che, non senza vena polemica, ancora ventisettenne intitolò un suo saggio Schönberg è morto – non fu comunque abbastanza radicale. La sua esplorazione del campo seriale viene definita unilaterale: “manca il piano ritmico e persino il piano sonoro propriamente detto: le intensità e gli attacchi”. Incalza poi Boulez, dichiarando senza mezzi termini il destinatario delle proprie preferenze: “Si dimentica facilmente che c’è stato anche un certo Webern; vero che non se ne è ancora sentito parlare molto (le cortine di mediocrità sono così spesse!) […] Si potrebbe forse cercare, così come quel certo Webern, l’evidenza sonora tentando un ingeneramento della struttura a partire dal materiale.
Si potrebbe forse estendere il campo seriale ad altri intervalli diversi dal semitono: microdistanze, intervalli irregolari, suoni complessi. Si potrebbe forse generalizzare il principio della serie alle quattro componenti sonore: altezza, durata, intensità e attacco, timbro”. È già un programma – ed è quanto Boulez porterà a compimento in Structures I e Polyphonie X, mentre a partire da Le marteau sans maître (1955) – suite per voce femminile di contralto e 6 strumentisti su testi del poeta René Char –, che rimane forse la sua opera migliore, anche il metodo seriale è applicato con più ‘elasticità’; alcune note, infatti, anziché venir ‘dedotte’ dall’organizzazione seriale generale del componimento, vengono scelte in base al loro effetto sonoro singolare, reintroducendo, benché solo a livello micrologico, le ‘ragioni’ dell’armonia (com’è stato ampiamente dimostrato dall’ottimo studio di Lev Koblyakov, Pierre Boulez. A World of Harmony).
Con Boulez se ne va un altro pezzo di quel Novecento che, col massimo rigore – cioè senza speciosi infantilismi speculativi, senza accondiscendere a voga alcuna e, non meno, senza nulla concedere al dilettantismo oggi imperante –, ha saputo coniugare all’audacia delle sue ricerche una fedeltà assoluta alle necessità intrinseche al momento estetico e all’urgenza storica del proprio gesto artistico.
Anziché dar luogo a inutili commemorazioni ‘liturgiche’, che Boulez certamente non avrebbe gradito, lanciamo un appello affinché i suoi scritti, tra i vertici teorici del pensiero novecentesco – Punti di riferimento, Note di apprendistato, Pensare la musica oggi, Per volontà e per caso, editi a suo tempo da Einaudi e, deprecabilmente, ma anche questo è un segno dei tempi, mai più ristampati – ritornino accessibili al pubblico.