Concedere un’ora e ventisei del proprio tempo alla ditta Zalone/Nunziante/Valsecchi è come dare le chiavi di casa in mano al ladro, prestare un coltello a Jihadi John e chiedergli di tagliare una cipolla, dare la possibilità a Berlusconi di dire ancora un’altra barzelletta
Di fronte a Quo vado? l’unico gesto liberatorio è quello di uscire dalla sala prima della fine, urlando un ‘basta’ che si senta fino a Capurso, e chiedendo indietro almeno 8 euro degli 8 spesi. Insomma, chiuderla venti, trenta minuti prima. All’incirca alla diciannovesima scenetta in cui Zalone canta una delle sue filastrocche dove Margherita Hack fa rima con ‘fuck’. Per carità la gag sulla morte, o sulla morta, o sulla scienziata morta visto che in quella sequenza si parla di scienza, (mah?!…) è dissacrante, va bene, d’accordo. Anche quella sui neri (con l’anello al naso), sulle donne (che devono pulire), i disabili (contenti di esserlo per il posto fisso), quelli della Val di Susa (dei vecchietti rimbambiti), i vegetariani (ricchioni). Va tutto bene.
Nel frullatone cinematografico elementare di Zalone ogni minoranza va sputtanata a dovere con un’iperbole (geniale?) dietro l’altra, un detto popolare, un gioco di parole, una rima che ci sta bene. Ok, siamo d’accordo: se dobbiamo far tornare gli italiani al cinema, se dobbiamo distruggere questo sistema di sovvenzionamento statale infinito per i film che poi in sala non fanno un euro, se dobbiamo mostrare che il popolo ha bisogno di ridere senza pensare troppo, perché la vita è dura, c’è la crisi, ecc… insomma per questi alti fini istituzionali e culturali si producano pure cinque, dieci – non di più, però – Zalone; ma almeno concedeteci la possibilità di non vederlo tutto, di non arrivare alla fine, di dire che fa pietà, di non doverci sorbire una Giovannona Coscialunga in ginocchio sui ceci. Perché la questione dell’elite intellettuale che impone canoni di bellezza al volgo ci sta tutta, e in certi casi va satireggiata e sfottuta; ma qui, davvero, per vendicarci del torto millenario di aver fatto digerire ‘capolavori’ sentenziati a priori dei Sokurov o Straub-Huillet, o delle commedie borghesi italiane finanziate dal Mibact, siamo andati molto oltre.
Concedere un’ora e ventisei del proprio tempo alla ditta Zalone/Nunziante/Valsecchi è come dare le chiavi di casa in mano al ladro, prestare un coltello a Jihadi John e chiedergli di tagliare una cipolla, dare la possibilità a Berlusconi di dire ancora un’altra barzelletta. Aprire il tappo e far defluire la marea indistinta di battute da scuola media di Zalone sarà sì operazione genericamente divertente ma il gioco, proprio come a scuola, quando il compagno simpatico la diceva davanti alle porte dei cessi durante la ricreazione, è bello finché è corto. Quo vado?, che è una farsa, in sé nulla di male, dura 86 minuti che non sembrano finire mai. Il fenomeno tv Zalone, l’attesa che la maschera dica quello che ci si aspetta, vengono continuamente reiterati, rivoltati e riproposti in primo piano a suon di piccole gag da tre/quattro battute da poche decine di secondi a sequenza, in modo che il ritmo non diminuisca mai, che lo spettatore rimanga come imbambolato, in attesa che Checco ne dica sempre un’altra, fino allo sfinimento. Dai ‘facce ride’, dipingiti il pizzetto di biondo mentre stai coi norvegesi, cantacene una, diccene un’altra su questa storia del posto fisso, destabilizzaci un po’ con questa comicità “corrosiva” sull’Italia dei mammoni. Poi se si riesce anche solo a mettere in pausa l’opera omnia ci si guarda attorno e ci si chiede: ma con chi ce l’ha questo qui? C’è un obiettivo, un’idea di fondo, uno straccio di qualcosa di nuovo, diverso da dire al popolo vessato, a cui hanno imposto pallosi drammoni, e che attende la sua giusta pausa da una vita orrenda? No. Zalone richiama di continuo linguaggi altrui (l’ ‘accendiamo’, ‘per me è sì’), adopera l’impaccio che fu di altri comici, la strafottenza pure, e compone un mascherone con un filo di matita sotto agli occhi del solito simpaticone senza nemmeno una goccia di delirio recitativo, oltretutto affascinato da un buonismo di fondo che, al di là dei miserabili sfottuti, deve comunque regnare.
Il fenomeno Zalone, a chi ha tolto otto euro alla ricarica del cellulare, la cosiddetta quota di coloro che vanno al cinema solo a Natale, non può e non deve proporre altro perché non verrebbe capito o gradito. Ed è qui che Quo Vado? assume in questa Italia d’inizio secolo una funzione differente da quella di opera cinematografica classica (e che palle con ‘sti capolavori e ‘sti movimenti di macchina’, “o queste metafore” – cit. Il Postino); ovvero il suo uso come arma contundente per regolare i conti tra giornali e giornalisti di centrodestra, e giornali, saggisti, intellettuali e ministeri di centrosinistra. Il testo filmico di Zalone diventa l’atteso sberleffo al potere contro quelle elite che ci hanno voluto emancipare a forza con Novecento di Bertolucci e Caro Diario di Moretti. È la vendetta che si ammanta pure di un fine utilitaristico per “l’industria cinematografica italiana”. Perché chi è che non ha sentito parlare in questa settimana di record d’incassi di Quo Vado? la frase sulla “boccata d’ossigeno per le sale italiane”? Magari, certo, questo afflusso per Quo Vado? può infondere entusiasmo generale, qualche biglietto strappato da un blockbuster in più del solito, ma poi quando la manna Zalone finisce che si fa? Non è che dopo Che bella giornata o Sole a Catinelle sono venute giù le sale d’Italia da quanto erano piene. Anzi: il famoso toccasana non portò a nulla, qualcosina in meno, addirittura. Qui il discorso esce sul serio dal testo e diventa un abbozzo di analisi antropologica su come sia cambiato questo paese almeno dagli anni ottanta in avanti (sono i dati e non le analisi dei giornali di sinistra a dirlo). Non esiste più la necessità di “andare al cinema”. Quella spinta, giudicatela come vi pare a livello valoriale per carità, che portava ad uscire di casa una, due volte a settimana per vedere un film.
Gli incassi dal dopoguerra ad oggi, anche se con più periodi di calo del pubblico che di risalita, registravano numeri robusti in media, e soprattutto premiavano ogni anno con omogeneità gli incassi. Prendiamo a caso un anno nella decade dei settanta: il primo film al box office faceva, ed esempio, 5 miliardi, il ventesimo 2, e la distanza non si allargava tropo almeno per una 30ina di titoli. Badate bene: film italiani e non, pop e d’autore, commedie e drammi. Invece il divario zaloniano di 55 milioni di euro (dico una cifra a caso, magari arriva 65) sovrasta con una proporzione 1:30 i faticosi 2 o 3 milioni raggiunti da una qualsiasi commedia sovvenzionata dallo stato, o anche solo i 6 dell’ultimo Pieraccioni o i 7 di Natale ai Caraibi (dopo nemmeno un mese pressoché scomparso dagli schermi italiani). Quo Vado? è così un fenomeno cinematografico chiaramente estemporaneo che passerà a breve lasciando una buona pensione a Zalone, Valsecchi&Co.ma senza concedere che un pugno di mosche, e un deserto di interesse e necessità legittime di un prodotto (opera d’arte no, è troppo snob) alternativo o differente, al resto della compagnia cantante e guardante. Zalone fa ben più male che bene al cinema italiano: perché concentra ulteriormente gli astenuti del cinema a votare solo quando il guru della comicità ha sentenziato. A proposito sentite questa. Lei, in mezzo alla neve e al ghiaccio mentre fa un lavoro pericoloso, dice rivolta a Checco, guardia provinciale: “Tu mi devi guardare le spalle”; e Checco scavalca l’ ‘inscavalcabile’ fissando con gli occhi le spalle della ragazza. Zalone, appunto, potreste essere voi. Ribellatevi, o almeno, prima che il film finisca, uscite dalla sala.