Nel corso di entrambi i conflitti mondiali, le potenze europee fecero carne da cannone non solo dei propri cittadini e sudditi, ma anche di oltre un milione di africani. Tra il 1939 e il 1944, Francia e Regno Unito impiegarono circa 200.000 tirailleurs sénégalais, 350.000 tirailleurs algériens e 375.000 fanti delle West African Divisions contro i paesi dell’Asse; i belgi mobilizzarono tre brigate di fanteria congolesi contro l’Italia ed i suoi ascari eritrei in Abissinia. Il 20% circa di questi combattenti perse la vita, senza contare feriti e mutilati. Dopo avere combattuto per la libertà degli europei, venne per gli africani il momento di riprendersi la propria, sotto l’impulso di leader come Haile Selassie, Julius Nyerere, Kwame Nkrumah e Patrice Lumumba. Nel 1945 la neonata Onu sancì il diritto all’autodeterminazione dei popoli ed istituì un regime di tutela internazionale per quel terzo della popolazione mondiale che, in Africa ed in Asia, viveva ancora sotto il giogo coloniale.
Anche nel Ruanda-Urundi, posto, come il Congo, sotto amministrazione fiduciaria belga, si faceva strada il nazionalismo. Nel febbraio 1957, durante il regno del Mwami Mutara III Rudahigwa, il Consiglio dei capi ruandesi (l’aristocrazia Tutsi), reclama l’emancipazione immediata del Ruanda. L’amministrazione belga non gradisce e, dopo avere favorito i Tutsi per decenni, decide improvvisamente di trasferire il proprio sostegno alla contro-élite Hutu. Essa, formata nei seminari cattolici e guidata da Grégoire Kayibanda, prende in effetti le distanze dal nazionalismo e, degna erede del discorso razziale coloniale, nel ‘Manifesto dei Bahutu’ del marzo 1957, mette l’accento sulla più urgente necessità di porre fine al ‘feudalesimo Tutsi’. Queste idee sono sostenute anche da una nuova generazione di missionari belgi legati agli ideali della democrazia cristiana, e soprattutto dai fiamminghi, che identificano il populismo Hutu con le proprie rivendicazioni nei confronti dei valloni.
Nel giugno 1959 Kayibanda forma il Partito per l’emancipazione Hutu (Parmehutu), a cui si oppone l’Union Nationale Rwandaise (Unar) dei Tutsi. Il mese dopo Mutara III muore improvvisamente dopo essere stato vaccinato all’ospedale di Usumbura (l’attuale Bujumbura), diffondendo il sospetto di un avvelenamento da parte dei belgi. Sale al trono Kigeri V, che sarà l’ultimo re Tutsi del Ruanda. Il primo novembre, si sparge voce che i Tutsi abbiano ucciso il capo Hutu Mbonyumutwa. Ne segue un’ondata di violenze che sarà chiamata ‘Rivoluzione Sociale’: almeno 30.000 Tutsi sono uccisi ed altri 300.000 si rifugiano nei paesi vicini. Dal Congo accorre il colonnello Guy Logiest per proteggere i cittadini belgi e “ristabilire l’ordine”. Ma Logiest consoliderà la rivoluzione Hutu sostituendo un grande numero di capi Tutsi con capi Hutu e permettendo il proseguimento delle violenze contro i Tutsi. Kigeri V fugge dal Ruanda e si rifugia negli Stati Uniti. Nel 1961 il Parmehutu vince le elezioni legislative, condotte sotto osservazione Onu, ed un referendum sancisce la fine della monarchia. Il primo di luglio 1962 il Belgio concede l’indipendenza al Burundi ed al Ruanda, e Kayibanda diviene il primo presidente del Ruanda.
Nel dicembre 1963, i profughi Tutsi (ribattezzati inyenzi, ovvero ‘scarafaggi’, come i Tutsi saranno chiamati anche nel 1994), aiutati dal governo Tutsi della nuova repubblica burundese, tentano di tornare in Ruanda a riprendersi il potere perduto, ma sono sconfitti dal potere Hutu ruandese, che massacra altri 10.000 Tutsi e ne spinge molte nuove migliaia all’esilio.
Per tutto il decennio successivo, Kayibanda imporrà l’egemonia Parmehutu, limitando al 9% la percentuale di Tutsi nelle scuole e nell’amministrazione, mantenendo le carte d’identità etniche istituite dai belgi, scoraggiando i matrimoni misti ed eliminando i leader Tutsi ancora presenti nel paese.
Sarà tuttavia un altro Hutu, il generale Juvénal Habyarimana, ad abbatterlo nel colpo di Stato del 1973. Inizialmente salutato con sollievo dai Tutsi, Habyarimana manterrà però le politiche di apartheid; e quando, a partire dal 1990, i discendenti dei profughi del 1959-63 (uniti nel Fronte Patriottico Ruandese) attaccheranno il Ruanda, questa volta a partire dall’Uganda, sarà proprio lui, insieme all’Akazu, il clan dei parenti ed amici suoi e soprattutto di sua moglie Agathe (che vive tuttora indisturbata in Francia), ad organizzare lo sterminio di un milione di Tutsi e Hutu moderati, cominciato nelle ore che seguirono proprio l’abbattimento dell’aereo che lo riportava a Kigali, di ritorno dai negoziati in Tanzania, la sera del 6 aprile 1994.