In occasione della mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni presso la Camera, il premier si presenterà in aula per illustrare “quanto fatto sino ad oggi”: legittimamente si difenderà dalle accuse e dalla mozione, che ha un significato puramente simbolico dati i numeri della Camera e il momento in cui è stata presentata. Sarà, più che altro, una occasione per legare le sorti della riforma costituzionale, in discussione proprio in queste ore, al destino del governo.
Questo governo, infatti, è da sempre macchiato dal peccato originale di non essere passato per alcuna elezione e di aver spodestato il precedente primo ministro con una votazione tutta interna agli organi direttivi di partito.
Il punto, però, non è questo. Nessun governo, infatti, in Italia passa per le elezioni, almeno non direttamente. Il fatto è che a sostenere il governo è una maggioranza del tutto differente rispetto a quella che si era formata al momento delle elezioni, con capovolgimenti, nuovi partiti e il record di cambi di schieramento. E questa maggioranza, peraltro, sta portando avanti riforme e leggi per le quali non è stato espresso alcun mandato elettorale e che non erano assolutamente menzionate nei rispettivi programmi. Formalmente è tutto corretto, ma dietro alla legittimità formale (assenza del vincolo di mandato e premier di nomina presidenziale) si nasconde un vizio di fondo che invece è sostanziale e che riguarda la totale inutilità delle elezioni del 2013, il cui risultato non è stato neanche minimamente rispettato.
Neanche questo è il punto. Pur essendo grave, la questione delle elezioni è ormai vecchia, stantia e inutile.
Il vero fatto è che la decisione del governo di legare le proprie sorti al referendum sulle riforme suona come una strumentalizzazione per ottenere, utilizzando i passaggi alle urne “obbligatori”, quel passaggio elettorale che non è mai stato ottenuto. È stato così per le europee del 2014, nelle quali effettivamente registrò un enorme successo; è stato così per le regionali del 2015 e sarà, ancora, così per il referendum del 2016.
Una sorta di check-up annuale riguardo alla azione di governo: un check-up, però, indiretto, dal momento che la legislatura, non essendo per ovvie ragioni coinvolta in queste occasioni, non è mai stata a rischio, e di conseguenza non lo è stato il governo.
A prescindere, dunque, da ogni polemica è evidente che il referendum del prossimo ottobre assumerà una valenza particolare e problematica, non tanto dal punto di vista formale di un referendum che prescinde dalla sua funzione primaria per andare a interessare le sorti del governo (quasi come fosse una questione di fiducia posta direttamente ai cittadini); ma sarà problematico dal punto di vista strettamente pratico e politico. La questione è questa e coinvolge tre situazioni diverse: quella di chi vorrebbe vedere l’attuale governo a casa, ma è attratto dalle riforme costituzionali oggetto strumentale del referendum; quella di chi, al contrario, non condivide le riforme costituzionali ma vorrebbe continuare a sostenere il Governo; ultima situazione, la più limpida, è quella di chi vorrebbe vedere affondare sia le riforme che il governo o quella di chi sostiene entrambe.
Partendo da quest’ultima, non si pongono particolari problemi: la scelta è quanto mai agevole. Il problema si pone per i primi due casi: la scelta dovrà tenere conto, contemporaneamente della valutazione dell’operato del governo, in quanto oggetto di fatto della consultazione referendaria, e del contenuto della riforma costituzionale, in quanto oggetto solo formale e simulato del referendum. In ogni caso, per le persone prima individuate l’indicazione del proprio voto non lascerà soddisfatti. Il voto non si fonderà, dunque, su un sì o su un no alla riforma, ma sarà basato su un bilanciamento fra i due oggetti del referendum, di cui uno sarà la vittima sacrificale, il capro espiatorio per il successo dell’altro.
A volerla dire tutta, poi, proprio questa ultima questione sulla duplicità dell’oggetto del referendum potrebbe porre essa stessa, sulla base di una considerazione puramente astratta, dei problemi di costituzionalità.
Il referendum, poiché richiede la partecipazione al voto direttamente ai cittadini, deve essere, secondo la legge costituzionale che lo disciplina e secondo una costante giurisprudenza, un referendum dal contenuto univoco, intellegibile e omogeneo. Pur potendo, infatti, avere ad oggetto più di una disposizione legislativa, il referendum deve ricadere su un argomento ben determinato e puntuale, per garantire la chiarezza del risultato della consultazione e per garantire agli elettori di votare in modo informato.
Continuando su questa considerazione, che, si ripete, è puramente astratta e ironica – non potendo né la Cassazione né la Corte Costituzionale sindacare sulla valenza politica della consultazione – una minima verità si può ricavare. Il referendum avrà solamente in parte per oggetto la riforma: sarà, soprattutto, un giudizio sull’operato del governo.
Stando così le cose, forse, il referendum era meglio non farlo.