Forse resta il monumento al rock più impervio e misterioso da percorrere. Sui gradini che lo attraversano riesci a perderti. Perché David Bowie ha fatto in modo di fuggire da se stesso, ha sempre cercato di tenere aperta una porta che gli permettesse di uscire e rientrare, alzare o calare il sipario. E’ stato un grande attore di teatro, con una voce formidabile. Bulimico di alcol, cocaina e sesso, un cacciucco di vizio che stavano per tramortirlo già all’inizio degli anni Settanta. Si è trasformato nelle vesti, nei capelli e nei pensieri. Quando viaggiò per l’Unione sovietica alla frontiera, mentre torna verso Berlino, viene trovato con libri di Goebbels e Speer, e i giornali allora lo dipingono come un uomo ossessionato dal nazismo e, in parte, dai testi di Nietzsche. A Playboy racconta che “Hitler è stato la prima grande rockstar e il nazionalsocialismo una splendida iniezione di morale”. Va bene, ha le narici intasate dalla cocaina, il cervello probabilmente in tilt, ma a nessuno sarebbero mai state perdonate dichiarazioni così orripilanti. Lui se la cava, un po’ di tempo dopo, con “le mie dichiarazioni non sono mai un fatto politico, ma teatrale. Se ho detto qualcosa del genere mi riferivo all’assurdo stato di apatia culturale in cui versa l’Inghilterra”.
La parentesi si chiude nel 1976, quando a un suo concerto fa il saluto nazista. Dice che no, non è vero, ma a Bowie viene perdonato tutto. Perché alla fine a Bowie si può perdonare tutto, come spesso accade per il mondo della musica. Non era di sinistra, sicuramente, ma ha frequentato la New York avanguardista di Andy Warhol, ha lavorato sui testi di William Burroughs, ha scelto, dopo un pellegrinaggio tra Londra, Berlino e in parte l’Italia, di stabilirsi nella città più antifascista dell’universo, New York appunto.
Il resto è stato la trilogia berlinese, Low (1977), “Heroes” (1977) e Lodger (1979). Quando riesce a disintossicarti dalla cocaina entra nel mito. Bowie è l’unico artista in grado di conciliare rock e teatro, porta a braccetto il pop e l’avanguardia, le arti visive e la letteratura. Gioca sull’ambiguità sessuale come nessuno mai riuscirà a fare. Fa credere tutto e il suo contrario: “Sono stato omosessuale, non lo sono più. Vado con gli uomini solo quando sono in Giappone”, risponde in maniera più che provocatoria.
E’ perdonato anche per questo perché, come ha scritto Ernesto Assante, “ogni suo cambiamento, ogni sua immagine, hanno contribuito a modellare il nostro immaginario collettivo, a dare corpo ai nostri sogni e ai nostri fantasmi, a muovere e commuovere, a dimostrare che l’arte può essere solo libera o non è, che il rock, piaccia o meno, è stata una delle forme d’arte fondamentali del nostro tempo”.
Qui c’è tutto Bowie. E fino all’ultimo ha fatto la cosa più difficile che possa riuscire un essere umano: non assomigliare a se stesso.